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Immagine del redattoreAlice Rondelli

Un ottimo pretesto

I palestinesi hanno sempre avuto unicamente due scelte: soccombere e lasciarsi spazzare via, o rivoltarsi all'oppressore. Sopravvivere per loro non è qualcosa che ha a che fare con il singolo individuo, ma con lo scampare all'oblio di un intero popolo. Come si inseriscono in questo contesto le "Riflessioni sulla violenza" di Georges Sorel?
Ph. "Prendersi gioco della morte", Trentino Alto Adige, 2022 (Alice Rondelli)

Secondo il dizionario Treccani, il “pretèsto” è «una motivazione non rispondente a completa verità che si adduce come spiegazione del proprio comportamento o del proprio operato, allo scopo di mascherarne i reali motivi».


Georges Sorel (1847-1922) è stato un filosofo, sociologo e ingegnere francese, teorico del sindacalismo rivoluzionario, la cui elaborazione di una prospettiva antistatalista avviene nella forma dell’anarcosindacalismo. Il suo pensiero consiste principalmente in una radicale contestazione dello Stato moderno, in quanto ritenuto espressione di logiche utilitaristiche e, per questa

ragione, immorali. Esso avrebbe, infatti, sostituito la moralità pubblica con il tornaconto individuale e gli interessi particolari delle forze politiche di volta in volta al potere.

Come spiega Viviana Galletta nel suo “Miti e utopie della modernità nelle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel”: «L’adesione di Sorel al sindacalismo rivoluzionario, maturata negli anni dell’affare Dreyfus» (1894 al 1906) e dell’esperienza fallimentare – almeno a suo giudizio – di un’azione socialista interna alle dinamiche parlamentari, trova una traduzione sul piano della concettualizzazione filosofica nelle “Riflessioni sulla violenza”. L’esperienza politica e intellettuale di Sorel – in particolare la meditazione sui testi di Marx e di Bergson – fa capolino nell’elaborazione di una riflessione antistatalista imperniata sul mito dello sciopero generale. L’antistatalismo soreliano matura, dunque, negli anni in cui lo Stato francese – nella forma della Terza Repubblica – andava rafforzandosi in quanto dispositivo neutro di potere agognato da tutte le forze politiche, socialisti compresi. (…) All’opposto delle dinamiche parlamentari, sostanzialmente incentrate sull’azione di mediazione delle istanze sociali svolta dai partiti politici, il sindacalismo rivoluzionario promuoveva il sindacato come un canale di azione diretta e spontanea delle masse operaie, rifiutando ogni tentativo di incanalare i conflitti sociali all’interno delle istituzioni statali. (…) La forza statale rappresenta, infatti, un’istanza di pacificazione e di elusione di ogni conflitto poiché accomuna le diverse istanze politico-sociali nella medesima con-fusione utilitaristica ed immorale realizzata nello Stato borghese. Al contrario, la violenza proletaria, che si esprime nello sciopero generale, esaspera la scissione tra le parti sociali, realizzando l’unico autentico atto politico – che possa davvero dirsi pubblico e, dunque, morale – perché realmente conflittuale rispetto alle contraddizioni del presente.»


Con l’enciclica “Rerum Novarum” di Papa Leone XIII, nel 1891 la Chiesa si interessò per la prima volta alle sorti dei lavoratori e inaugurò una moderna dottrina sociale cristiana. I cosiddetti “sindacati bianchi” diedero il via ad un’evoluzione politica filo-democratica di muto soccorso, il cui obiettivo era quello di frenare le rivoluzioni sindacali su cui insiste Sorel, caldeggiando le riforme sociali, al fine di non guastare lo status quo. Insomma, la critica al liberismo operata dal Papa fu il pretesto per creare una terza forza che fosse in grado di mediare tra lavoratori e industriali, ponendo così un freno al sindacalismo rivoluzionario teorizzato da Sorel.

Per meglio comprendere questo genere di strumentalizzazione, è sufficiente riflettere sul fatto che le prime legislazioni sociali della storia furono varate da regimi autoritari.

Come ha spiegato il diplomatico e politologo Sergio Romano, in un articolo del 2013: «Le maggiori leggi sociali di Bismarck furono tre: l’assicurazione contro le malattie nel 1883, l’assicurazione contro gli incidenti sul lavoro nel 1884, l’assicurazione contro la vecchiaia e l’invalidità del 1889. Nelle prime due lo Stato si limitò a recitare la parte dell’arbitro che fissa le regole del gioco e la distribuzione dei costi: un rapporto di 2 a 1 fra datori di lavoro e prestatori d’opera. Nel terzo caso lo Stato intervenne attribuendo una parte dell’onere al Tesoro pubblico. (…) Bismarck non poteva ignorare che la rivoluzione industriale aveva creato una nuova categoria sociale (i lavoratori dell’industria), destinata ad accrescere l’importanza del socialismo nella società politica tedesca. Ma quando presentò al Reichstag (il parlamento del Reich tedesco) le prime due leggi, dovette battersi soprattutto contro il liberismo della Scuola di Manchester, composta dalla maggioranza degli imprenditori e dai seguaci di Adam Smith, tutti convinti che il migliore dei sistemi fosse quello in cui lo Stato “lasciava fare e lasciava correre” senza interferire nei rapporti di lavoro.» allora «I socialisti dovettero scegliere fra due possibili strategie: opporsi alle leggi sociali perché erano state presentate da un governo borghese e conservatore, o accettarle come un acconto su riforme future. Scelsero una via di mezzo. Approvarono il principio, ma presentarono le loro proposte o cercarono di fare approvare i loro emendamenti.» Dunque Bismarck, come Leone XIII, riuscì a sventare la nascita della rivoluzione antistatalista auspicata da Sorel.

Crispi – acceso ammiratore della politica di Bismarck – governò l’Italia dal 1887 al 1896, incarnando la svolta autoritaria della Sinistra storica. In tema di politica interna, se da una parte rese legittimo lo sciopero, dall’altra rafforzò il potere esecutivo e attuò una politica repressiva nei confronti di dissidenti politici, organizzazioni sindacali operaie e movimenti di protesta contadina.

Lo scopo ultimo delle iniziative sopra descritte era quello di creare un nuovo strumento utile a creare un rapporto emotivo con le folle e gestirne i moti passionari.


In Palestina, il Movimento Islamico di Resistenza – meglio noto come Hamas – fu fondato dallo sceicco Ahmad Yasin e dai politici ʿAbd al-ʿAzīz al-Rantīsī e Mahmud al-Zahar nel 1987 come braccio operativo dei Fratelli Musulmani, per combattere lo Stato di Israele. Nel gennaio 2006, con una vittoria del 44% alle elezioni legislative in Palestina, Hamas ottenne 74 dei 132 seggi della camera; mentre al-Fatah – organizzazione politica e paramilitare palestinese, facente parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) – con il 41% circa dei voti ne ottenne solo 45. Hamas promosse diversi programmi di previdenza sociale e istruzione a favore della popolazione palestinese, come la costruzione di scuole e ospedali. È d’obbligo chiedersi se anche queste iniziative non possano essere considerate alla stregua di quelle di fine ‘800 in Europa: una sorta di fidelizzazione delle popolazioni. Hamas ha deciso di utilizzare il terrorismo come strumento per liberare la Palestina dalla dominazione di Israele, ma questa scelta ha portato a continue rappresaglie da parte di Netanyahu, che si traducono nella carneficina di civili che vediamo riproporsi anno dopo anno.

Nell’ottica di Sorel, il vero cambiamento non può mai venire da una forza politica, ma deve partire dal basso e, dunque, è necessario domandarsi: quanto è davvero a base popolare Hamas?


Le fasi decisive che ci portano a ciò a cui stiamo assistendo oggi sono tre. La prima: il 10 marzo 1948, quando i leader della comunità ebraica in Palestina, insieme ai loro comandanti militari, presero la decisione di occupare il 78% della Palestina – che dal 1917 si trovava sotto mandato britannico – nel quale vivevano un milione di palestinesi, la gran parte dei quali venne espulsa; la seconda: la pulizia etnica dei palestinesi nelle aree occupate dagli israeliani nel 1967, la cui risoluzione politica decise di escludere la Cisgiordania e la Striscia di Gaza da qualsiasi agenda di pace, di trasferire il dominio all’esercito israeliano e di incorporare i Territori dello Stato ebraico senza annetterli formalmente, gettando quindi la gente che lì viveva in un limbo civile e personale; e la terza: la legalizzazione dell’occupazione, quando Zvi Inbar – che faceva parte del versante legale di quella che i militari israeliani chiamavano “occupazione belligerante” – decise che, in pochi giorni, lui e la sua squadra sarebbero diventati l’autorità legislativa dei territori occupati nel giugno del 1968.

Come spiega lo storico israeliano Ilan Papé, con l’arrivo dei primi coloni ebrei in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, i decreti che autorizzavano l’esproprio delle terre e la delimitazione degli spazi palestinesi aumentarono di numero e di frequenza. Attorno al 1970, la colonizzazione ebraica e la presenza militare si fusero in un unico sistema votato al saccheggio di terre: queste venivano dapprima confiscate con il pretesto di erigere istallazioni militari, ma con l’intento di trasformarle in colonie ebraiche. Nel 1977, con l’ascesa al potere di Likud, il sotterfugio fu abbandonato e la terra fu espropriata con l’intento esplicito di costruivi colonie civili destinate agli ebrei. La previsione era che i palestinesi avrebbero accettato la nuova realtà fin dall’inizio dell’occupazione, perché qualunque tipo di resistenza avrebbe comportato la detenzione immediata, così come aiutare o nascondere chiunque vi fosse coinvolto. L’OLP era stato fondato nel 1964, ma nel primo decennio di occupazione molti palestinesi erano disposti a concedere una possibilità alla nuova iniziativa israeliana, favorendo l’affievolirsi della resistenza. Tuttavia, dal 1977 al 1987 (anno della prima Intifada – la rivolta popolare palestinese) il governo di Likud concesse ai coloni israeliani più ideologizzati la licenza di agire liberamente, in maniera più violenta anche a livello burocratico. Oltre alle numerose azioni punitive nei confronti dei palestinesi, nel 1982 il comandante israeliano della regione centrale decise di impiegare nella zona di Hebron “unità di difesa regionale”, utilizzando i coloni come soltati con l’autorizzazione di intimidire e abusare della popolazione locale. Fu in questo contesto che l’OPL decise di attirare l’attenzione internazionale su di sé con azioni considerate terroristiche, come il dirottamento di un autobus lungo la strada che da nord conduce a sud di Tel Aviv nel 1978. Questo fornì la scusa al governo israeliano per iniziare una guerra attiva contro l’OLP, la cui strategia venne delineata da Ariel Sharon, il cui primo obiettivo fu quello di scollegare il più possibile i Territori palestinesi dalla loro leadership nazionale e di ucciderne i membri. Nel 1985 Israele si era ormai impadronito del 39% della Cisgiordania, acquisendo anche i terreni privati, realizzando il controllo fisico totale del territorio, impresa che non era mai stata tentata prima di allora, neanche durante il mandato britannico. Un’acquisizione di terreni più complessa, ma ugualmente efficace, fu quella realizzata a Gerusalemme Est, dove la maggior parte dei terreni apparteneva a privati. Nel frattempo, decreti e regolamenti impedivano l’ampliamento degli edifici già esistenti o che, per i nuovi fabbricati, imponevano tasse di licenza ben oltre le possibilità finanziarie del palestinese medio; l’esclusione dei palestinesi dagli organi di pianificazione e dai comitati, ecc… Insomma, l’espulsione era la scelta prediletta, l’incistamento l’alternativa migliore.

Così si arriva all’8 dicembre 1987, quando quattro abitanti del campo profughi di Jabalya, a Gaza, furono uccisi da un camion, evento che segnò l’inizio della prima rivolta, o Intifada.

Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca e sotto gli auspici del presidente Bill Clinton, Israele e l’OLP siglarono una dichiarazione di principi conosciuta come “accordi di Oslo”, a cui parteciparono Arafat – capo dell’OLP – Rabin e Perez – rispettivamente primo ministro israeliano e ministro degli Esteri. Gli accordi chiudevano un lungo periodo di negoziati spinto dalla vittoria del partito laburista alle elezioni in Israele del 1992 e le apprensioni israeliane per l’iniziativa di pace di Madrid, un’impresa voluta dagli americani e volta a condurre Israele, i palestinesi e il resto del mondo arabo ad accordarsi su una soluzione dopo la prima guerra del Golfo. La conferenza di Madrid del 1991 prevedeva una soluzione del conflitto che si fondasse sul ritiro dai territori occupati, idea che l’élite politica israeliana voleva stroncare sul nascere. Anche in questo caso possiamo vedere come dietro soluzioni apparentemente meritevoli, come gli accordi di Oslo, ci siano motivazioni puramente conservative dello status quo.

L’intero processo di pace fu un fallimento, perché comportava una spartizione dei territori che non solo i palestinesi non avevano mai chiesto, ma a causa del fatto che la quota di territorio rivendicata dagli israeliani cresceva proporzionalmente mano a mano che il loro potere aumentava. Perciò, mentre la spartizione otteneva un sostegno crescente a livello globale, ai palestinesi appariva sempre più come una strategia offensiva condotta con altri mezzi. La seconda ragione che aveva reso irrilevante il processo di Oslo è stata l’esclusione dall’agenda di pace del diritto al ritorno degli esuli palestinesi che erano stati espulsi durante la Nakba (esodo) del 1948. La questione della cancellazione dei rifugiati e quella della minoranza palestinese all’interno di Israele facevano sì che dal punto di vista mografico, il “popolo palestinese” si riducesse a meno della età della nazione palestinese.

Prima della seconda Intifada, ci fu il vertice di Camp David nel 2000, al quale Arafat arrivò convinto che negli anni successivi agli accordi di Oslo la condizione dei palestinesi non aveva fatto che peggiorare; così, anziché affrettarsi a porre fine al conflitto una volta per tutte nel giro di due settimane, il capo dell’OLP chiese che Israele accettasse alcune misure che avrebbero potuto infondere una nuova fiducia circa l’utilità e i benefici del processo di pace. La prima riguardava la riduzione della colonizzazione intensiva e la seconda la fine delle brutalità che ogni giorno caratterizzavano l’esistenza dei palestinesi. Il premier israeliano Barak rifiutò entrambe le richieste di Arafat, che venne accusato da Israele e dai suoi alleati di essere un guerrafondaio e di aver spinto per una seconda Intifada. Pappè afferma «la mistificazione sta nel voler far credere che la seconda Intifada sia stata un attacco terroristico sponsorizzato, e magari pianificato da Arafat. La verità invece è che essa fu una dimostrazione dell’insoddisfazione popolare per il tradimento di Oslo, aggravata dall’azione provocatoria di Sharon. Questi, infatti, in qualità di capo dell’opposizione, nel settembre 2000 fece un giro ad al –Haram al-sharif, il Monte del Tempio, accompagnato da una massiccia scorta e dai media, scatenando una congerie di proteste. La rabbia iniziale dei palestinesi si era tradotta in una protesta non violenta, che però Israele schiacciò con brutale vigore. Queste manifestazioni di spietata repressione portarono a una replica ancora più disperata: gli attentati suicidi sferrati come ultima risorsa di fronte alla potenza militare più forte in campo».

Nel 2007 il 40% della Cisgiordania si trovava sotto il dominio diretto di Israele, che aveva consolidato la propria presenza sul territorio mediante barriere, basi dell’esercito e aree militari interdette, che gli israeliani avevano dichiarato “riserve naturali”; anche il controllo delle strade era stato rafforzato e la circolazione era diventata ancora più difficile quando le autorità israeliane avevano ultimato la costruzione di una nuova autostrada (divisa da un muro che separa l’arteria in corsie ebraiche e corsie palestinesi), che da nord a sud taglia in due la Cisgiordania.

Già nel 2007, secondo un rapporto stilato dalla Banca Mondiale, l’occupazione israeliana della Cisgiordania ha letteralmente distrutto l’economia palestinese. Ad averla tenuta in vita, per quanto in misura ristretta, sono stati unicamente gli aiuti internazionali.

Fino al 2007, la strategia principalmente adottata a Gaza era stata quella di ghettizzare i palestinesi, ma la cosa non funzionava più. La comunità segregata continuava a lanciare missili rudimentali su Israele e l’esercito israeliano rispondeva intensificando la propria offensiva. Con l’operazione “prima pioggia” nel 2005, i civili di Gaza divennero ufficialmente un obiettivo militare; poi, nel giugno 2006 le “piogge estive” diedero il via a operazioni punitive sulla popolazione; nel novembre 2006, come “nuvole d’autunno” i raid mirati dell’esercito israeliano colpirono indiscriminatamente donne e bambini. È in questo clima di crescente brutalità che Hamas acquista il consenso popolare del 44% della popolazione palestinese e Israele, come fece con l’OLP decise di stroncare la resistenza palestinese colpendone i capi politici e militari.

Il 18 novembre 2008 Hamas intensificò, brevemente, le raffiche di missili in risposta alla precedente azione israeliana che, dal giorno dopo, colse l’occasione per bombardare il milione e mezzo di abitanti di Gaza fino al 21 gennaio 2009, con incursioni via aria, via mare e via terra, uccidendo 1.500 persone e facendo migliaia di feriti. La successiva fase di aggressione ebbe luogo nel 2012, attraverso due operazioni: “Eco di ritorno”, scaturita da uno scontro lungo i confini, e “Pilastro di difesa”, che mise fine al movimento di protesta sociale scoppiato quell’estate dentro Israele. Per alcuni mesi, infatti, centinaia di migliaia di israeliani, appartenenti alla classe media, avevano manifestato minacciando di far cadere il governo a causa delle sue politiche economiche e sociali. Non c’era niente di meglio di una guerra nel Sud per convincere i giovani ad andare in difesa della patria anziché protestare. Tuttavia, per la prima volta Hamas riuscì a raggiungere Tel Aviv con i suoi missili, i quali causarono pochi danni e nessuna vittima. E come è tipico dello squilibrio nel bilancio di perdite, quell’anno furono uccisi 200 palestinesi di cui 10 bambini. Ma le amministrazioni ormai esauste dell’Unione Europea e degli Stati Uniti non espressero neppure una condanna per gli attacchi del 2012; anzi, in più occasioni citarono il «diritto di Israele a difendersi».

Nell’estate del 2014 il rapimento e l’uccisione di tre coloni in Cisgiordania offrì a Israele il pretesto per lanciare un’offensiva distruttiva che è costata la vita a 2.200 palestinesi.

Dal 2010 le società civili hanno inviato flottiglie di navi per mostrare la propria solidarietà ai palestinesi e rompere l’assedio di Gaza. Una di esse, la Mavi Marmara, è stata ferocemente attaccata dai commando israeliani, che hanno arrestato i suoi passeggeri dopo averne uccisi nove.

Al momento in cui Papé termina di scrivere il suo libro: “La prigione più grande del mondo” (Fazi Editore, 2017), dal quale ho tratto le informazioni che vi ho fornito, «la mostruosa mega-prigione, concepita da Israele nel 1963 e poi edificata nel 1967, ha compiuto cinquant’anni. Al suo interno vive la terza generazione di detenuti, in attesa che il mondo riconosca le sue sofferenze.»


La risposta alla domanda che mi ha portato ad affrontare il breve excursus storico del conflitto israelo-palestinese, ovvero: quanto è davvero a base popolare Hamas?, ha una sola risposta: molto.

Una domanda alla quale, invece, non esiste risposta è: il fine giustifica i mezzi? Personalmente ho sempre pensato di no, perché giustificare la violenza di Hamas significa avvallare anche l’ormai celeberrimo e sdoganato «diritto di Israele a difendersi». Tuttavia, il popolo palestinese non ha mai avuto alcuna chance di vincere in campo diplomatico contro Israele, e questo è un fatto di cui ci parla la Storia, non un’opinione personale. I governi israeliani che si sono susseguiti negli anni non hanno mai avuto come scopo un qualsivoglia tipo di pace o, per meglio dire, di convivenza pacifica; l’unico scopo di Israele è quello di esistere, non importa a quale prezzo. I palestinesi hanno sempre avuto unicamente due scelte: soccombere e lasciarsi spazzare via, o rivoltarsi all’oppressore con qualunque mezzo. Sopravvivere per loro non è qualcosa che ha a che vedere con il singolo individuo, ma con lo scampare all’oblio di un intero popolo. Oggi, più che mai, il timore è che a sottrarsi alla pulizia etnica perpetrata da Israele sarà solo la storia dei palestinesi e non loro stessi.


Nel 1908, Georges Sorel scrisse: «Alla violenza il socialismo deve gli alti valori morali grazie ai quali porta la salvezza al mondo moderno.» Ma cosa significa “salvezza” quando tutti intorno a noi stanno morendo?


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