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Immagine del redattoreAlice Rondelli

Quei bravi giornalisti

Come si conciliano l'indipendenza e l'etica della stampa con le direttive che il censore israeliano impone ai giornalisti accreditati?
ph. Broken view, gennaio 2023 (Alice Rondelli)

«Care colleghe e cari colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con Il Venerdì. Collaboro con il news magazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono novanta giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo, mi chiamo fuori».

Scrive così, il 7 gennaio 2024, nella sua lettera di dimissioni da Repubblica il giornalista Giulio Gambino, nato a Roma nel 1987. Gli studi alla Columbia University, le collaborazioni con L’espresso e La Stampa, la fondazione di The Post Internazionale (Tpi) e molte collaborazioni.

 

Tuttavia, la faccenda non si risolve con un rigurgito di coscienza individuale, ma è molto più complessa.

 

Un articolo del 4 gennaio 2024, firmato da Daniel Boguslaw e pubblicato da The Intercept (organizzazione giornalistica americana senza scopo di lucro, fondata nel 2014, che pubblica online articoli e podcast di stampo investigativo), titola: “CNN runs Gaza coverage past Jerusalem team operating under shadow of IDF censor”. Boguslaw scrive: «Che si tratti del Medio Oriente, degli Stati Uniti o di qualsiasi altra parte del mondo, ogni giornalista della CNN che si occupa di Israele e Palestina deve sottoporre il proprio lavoro all’ufficio per la revisione della testata giornalistica a Gerusalemme prima della pubblicazione». Si tratta di una politica di lunga data della CNN, sebbene essa affermi che la stessa è intesa a garantire accuratezza nel riferire su un argomento polarizzante. Questo significa che gran parte della recente copertura mediatica sulla guerra a Gaza – e le sue ripercussioni in tutto il mondo – viene modellata da giornalisti che operano all’ombra del censore militare del Paese.

Come tutte le testate giornalistiche straniere che operano in Israele, l’ufficio di Gerusalemme della CNN è soggetto alle regole di censura delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che disapprova gli articoli che ritiene non idonei o non sicuri. La censura militare ha recentemente limitato otto argomenti, tra cui: le riunioni del gabinetto di sicurezza, le informazioni sugli ostaggi e i resoconti sulle armi catturate dai combattenti a Gaza. Per ottenere il pass stampa in Israele, i giornalisti stranieri devono firmare un documento in cui si impegnano a rispettare i dettami della censura.

Secondo Boguslaw, un membro dello staff della CNN – che ha parlato a The Intercept in condizione di anonimato per paura di ritorsioni professionali – ha affermato che la politica di revisione interna ha avuto un impatto dimostrabile sulla copertura della guerra di Gaza e che spesso i pezzi vengono modificati in modo da dare alle parole una sfumatura che favorisca le narrazioni israeliane.

Il 26 ottobre la divisione News Standards and Practices della CNN inviò un’email allo staff, delineando come avrebbero dovuto scrivere della guerra: «Hamas controlla il governo di Gaza e dovremmo descrivere il Ministero della Sanità palestinese come “controllato da Hamas” ogni volta che ci riferiamo alle statistiche sulle vittime, o ad altre affermazioni relative al conflitto attuale. (…) Dovremmo sottolinearlo anche se le statistiche vengono rilasciate dal Ministero della Cisgiordania o da altri». L’email prosegue riconoscendo la responsabilità della CNN nel documentare il costo umano della guerra, ma esprime tale responsabilità nella necessità di coprire l’attuale contesto geopolitico e storico più ampio della storia, pur continuando a ricordare al pubblico la causa immediata di questo conflitto: vale a dire l’attacco di Hamas, l’omicidio di massa e il rapimento di civili israeliani.

In una direttiva datata 2 novembre, il direttore senior della divisione News Standards and Practices, David Lindsey, ha messo in guardia i giornalisti dal trasmettere le dichiarazioni dei membri di Hamas: «La maggior parte di ciò che dicono è già stato detto molte volte e non fa notizia. Dovremmo stare attenti a non dargli una piattaforma. (…) Tuttavia, se un alto funzionario di Hamas dovesse fare un’affermazione o una minaccia che è rilevante dal punto di vista editoriale, come cambiare il suo messaggio o provare a riscrivere gli eventi, possiamo usarla se è accompagnata da un contesto più ampio».

Un membro dello staff della CNN ha descritto come funziona nella pratica il protocollo Jerusalem SecondEyes: «Le parole “crimine di guerra” e “genocidio” sono tabù. Gli attentati israeliani a Gaza verranno denunciati come “esplosioni” attribuite a nessuno, finché l’esercito israeliano non interverrà per confermare o negare la propria responsabilità». Si aggiunge che: «le citazioni e le informazioni fornite dall’esercito israeliano e dai funzionari governativi tendono ad essere approvate rapidamente, mentre quelle provenienti dai palestinesi tendono ad essere attentamente esaminate ed elaborate lentamente».

 

Ryan Grim (un altro autore di The Intercept) ci ricorda che gli Stati Uniti hanno ripetutamente insistito sul fatto che Israele “dovrebbe” intraprendere una serie di misure che si è rifiutata di intraprendere; ad esempio, consentire aiuti umanitari sufficienti a Gaza, avviare sforzi per ridurre le vittime civili e così via. L’uso ripetuto della parola “dovrebbe” ha sollevato interrogativi su quanto sia ferma l’opposizione americana allo sfollamento di massa. Il 2 gennaio Ben-Gvir (Ministro della Sicurezza Nazionale di Benjamin Netanyahu) ha risposto così alla Casa Bianca in un tweet su X: «Apprezziamo molto gli Stati Uniti d’America, ma con tutto il rispetto non siamo un’altra stella sulla bandiera americana. Gli Stati Uniti sono i nostri migliori amici, ma prima di tutto faremo ciò che è meglio per lo Stato di Israele: l’emigrazione di centinaia di migliaia da Gaza consentirà ai suoi abitanti di vivere in sicurezza e proteggerà i soldati delle Forse di Difesa Israeliane».

Insomma, mentre la CNN (una delle più importante emittenti televisive americane) si adegua allo standard d’informazione israeliano, il governo di Bibi ricorda al mondo che il timore reverenziale degli organi di stampa, ormai completamente asserviti, è e rimarrà a senso unico.

 

Nel frattempo, scoppia lo scandalo relativo all’inchiesta del New York Times sulla ormai celebre "black dress woman", ovvero Gal Abdush: una donna ebrea israeliana uccisa dalle forze paramilitari della Striscia di Gaza il 7 ottobre 2023, durante l’attacco guidato da Hamas contro Israele. L’articolo si occupa dei presunti stupri di massa di Hamas ai danni di donne israeliane.

Il sito web The Greyzone (che si occupa di giornalismo investigativo indipendente) ha smantellato l’articolo pubblicato il 28 dicembre 2023 e intitolato: "Screams Without Words: How Hamas Weaponized Sexual Violence on October 7". Gli autori: Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella pretendevano di dimostrare “un modello più ampio di violenza di genere avvenuta il 7 ottobre” da parte di Hamas, sebbene persino le autorità israeliane non si fossero avventurate in un’accusa di quel genere. The Grayzone ha evidenziato come il rapporto del Times fosse viziato da sensazionalismo, salti logici e dall’assenza di prove concrete a sostegno della sua radicale conclusione. L’importante giornale americano è finito anche nel mirino dei familiari di Gal Abdush, che figurano come prova a sostegno della tesi dei tre giornalisti. La sorella e il cognato della donna hanno negato che esistano prove concrete che essa abbia subito una violenza sessuale prima della morte, accusando il Times di aver manipolato la sua famiglia affinché partecipasse all’inchiesta, ingannandola sul loro punto di vista editoriale. Anche se i commenti della famiglia hanno suscitato grande scalpore sui social media, il Times deve ancora affrontare la grave violazione dell’integrità giornalistica di cui il suo staff è accusato. La polizia israeliana ha anche rilasciato una dichiarazione dopo la pubblicazione dell’articolo, affermando che essa stessa non è in grado di individuare testimoni oculari dello stupro del 7 ottobre, o di collegare le testimonianze pubblicate da organi di stampa come il Times con qualcosa che somigli anche lontanamente a delle prove.  


In seguito, il Washington Post ha rimosso la stravagante affermazione del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, secondo cui i piani di battaglia di Hamas includevano istruzioni specifiche sugli stupri durante l’incursione del 7 ottobre.

Nell’articolo originale, pubblicato il 12 novembre e promosso come “esclusiva” del Washington Post, si cita Gallant, che avrebbe dichiarato al quotidiano: «Sappiamo dagli interrogatori che Hamas è arrivato con i piani dettagliati del suo attacco, compreso quale comandante si sarebbe dovuto occupare degli stupri». L’atto di autocensura era stato notato per la prima volta da un utente del social media X, il quale ha suggerito che l’imbarazzante incidente fosse il risultato di quello che hanno descritto come “il metodo israeliano di propaganda”.

Finora, nessuna presunta vittima di quelli che un titolo dell’Associated Press ha definito «crimini sessuali diffusi da parte di Hamas» si è fatta avanti per testimoniare pubblicamente, ma ciò non ha impedito agli alti funzionari dell’amministrazione statunitense di accettare per oro colato le rivendicazioni israeliane. Biden ha condannato come “spaventosi” quelli che ha descritto come «rapporti di donne ripetutamente stuprate e dei loro corpi mutilati mentre erano ancora in vita e di cadaveri di donne profanati dai terroristi di Hamas, che hanno inflitto altrettanto dolore e sofferenza a donne e ragazze prima di ucciderle». Infatti, come ha rivelato The Grayzone, molte delle accuse più incendiarie di violenza sessuale sembrano essere state inventate da soldati israeliani, o da membri di “organizzazioni di soccorso” ultra-ortodosse che hanno sfruttato la loro ritrovata importanza per raccogliere milioni di dollari. Molti dei partecipanti al festival musicale Nova sono stati uccisi proprio dalle forze israeliane. Infatti, in quella che i media israeliani descrivono come «la più grande richiesta di risarcimento mai presentata in Israele contro un ente statale per negligenza», un’azienda che rappresenta 42 sopravvissuti chiede quasi 55 milioni di dollari di risarcimento danni all’esercito, ai servizi segreti e alla polizia israeliani per non aver impedito l’incidente.

 

Nel suo libro: “La libertà o niente”, Emma Goldman scrive: «Quando nel corso dello sviluppo umano le istituzioni esistenti si dimostrano inadeguate alle esigenze umane, quando servono soltanto a schiavizzare, espropriare e opprimere l’umanità, il popolo ha l’imperituro diritto di ribellarsi contro quelle istituzioni, e rovesciarle».

Oggigiorno il giornalismo è più che mai a servizio dei governi ed è nostro diritto, dunque, metterne in discussione l’etica e contrastarne lo strapotere avvalendoci della controinformazione. Come disse Julian Assange, giornalista e fondatore di Wikileaks: «Se le bugie possono originare le guerre, allora la pace può cominciare con la verità».


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