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Immagine del redattoreAlice Rondelli

L'arte di resistere

Se in Italia nel 1978 si abolì l’istituzione dei manicomi, considerata al limite della tortura e lesiva dei basilari diritti umani, allo stesso tempo si è meticolosamente coltivata l’istituzione del carcere duro, nella quale relegare tutte quelle persone che risultano scomode alla società, attuando un regime di torture fisiche e psicologiche che non consentono alcun reinserimento nella società.

Ph. Margravine Cemetery, Londra, 2022 (Alice Rondelli)


Nel 1948 Fernando Nannetti ha ventuno anni quando durante una manifestazione di lavoratori si macchia del reato di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, ma il giudice lo proscioglie riconoscendogli un vizio totale di mente, in seguito a una diagnosi di schizofrenia. Si aprono così per lui i cancelli dell’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma che lo terrà in custodia fino al 1958, quando verrà trasferito alla sezione giudiziaria del Manicomio di Volterra e vi rimarrà fino alla dimissione, nel 1968.

Nata nei locali dell’ex convento di San Girolamo, l’istituzione operò a partire dal 1881, diventando Ospedale neuropsichiatrico dal 1934. Il rapporto tra questo “manicomio diffuso” e la città è sempre stato molto forte: i volterrani erano orgogliosi di veder ritornare alla vita gli ospiti della struttura, più volte paragonata a quella belga di Gheel, che dal XIII secolo si era distinta per la sua efficacissima tradizione di cura delle malattie mentali e per la creazione di una rete di assistenza post dimissioni. Per sette secoli, infatti, gli abitanti di Gheel hanno praticato il “trattamento familiare della follia”, ospitando i malati e consentendo a tutti una vita normale. Già nel 1900 il direttore Luigi Scabia aveva trasformato il manicomio di Volterra in una vera e propria città; nei primi decenni furono costruiti nuovi reparti e quasi a tutti gli ospiti fu trovata un’occupazione, tanto da far diventare la struttura un grande villaggio autosufficiente. Scabia aveva una visione moderna di come condurre quella macchina complessa e in buona parte riuscì nei suoi propositi, aprendo “la città dei matti” a nuove esperienze e arrivando ad ospitare quasi 5000 persone “storte” o “difettate” o passate per tali, finite in quella scatola dove uomini e donne sorvegliano uomini e donne.

In quei corridoi un uomo di nome Aldo Trafeli ha trascorso quarant’anni in qualità di infermiere e fu lì che incontrò il degente Fernando Nannetti (ribatezzatosi NOF4), che fin dal primo giorno dimostrò di gradire la sua compagnia, tanto da confidarsi con lui riguardo l’ambizioso progetto al quale si stava dedicando. In verità, NOF4 a quel tempo era già a metà dell’opera. La sua missione era quella di graffiare il mondo e restituire la sua storia e i suoi pensieri incidendo l’intonaco con la fibbia del gilet di ordinanza fornito ai pazienti, riempiendolo di segni e lettere come a voler infestare quel luogo, palesando così il suo distacco da ciò che stava vivendo. La mappa mentale che srotolava ogni giorno sulle pareti esterne della struttura serviva a lanciare un messaggio chiaro e forte: «Io esisto! Tutti mi avete rinnegato, ma io sono qui!» e una volta finito di dare forma alla partitura che aveva in mente, fendendo la parete, Fernando espelleva il progetto dalla sua mente come un corpo estraneo che non gli apparteneva più. Il muro lo aveva costretto per anni a guardare avanti, ad abbassarsi, a stare sulle punte, a premere forte con il suo pennello di ferro davanti a sé. Nel graffito scritto Nannetti narra sogni, desideri e segreti; nella parte dei disegni, invece, vi è qualcosa che desidera compiacersi di sé ed è dedicata al suo benessere interiore. «Come tanti artisti» ricorda Trafeli «Fernando parte per il suo viaggio con un fardello di cose, appesantito dalla vita e pian piano si libera arrivando ad una sintesi. Ritrovarsi è stato per lui un silente e solitario oscillare che lo ha condotto in mare aperto, ma che alla fine è approdato, credo, ad un porto sicuro o almeno a una tranquilla navigazione».

Oggi il Manicomio di Volterra è abbandonato e visitabile solo se accompagnati da una guida accreditata. I “graffi” di NOF4 sono ancora lì fuori, in balia delle intemperie, mentre il bosco pian piano inghiotte l’edificio. Il loro autore è considerato uno degli esponenti più geniali dell’Art brut e le fotografie della sua opera di incisione – che si estende per tutta la lunghezza del padiglione Ferri (70x1,2 metri) – è una preziosa eredità arrivata fino a noi grazie proprio ad Aldo Trafeli (autore del libro Io e Ferdinando) e sono esposte al museo Collection de l’Art Brut di Losanna. Pochi pezzi di questo poderoso lavoro artistico sono stati abilmente prelevati e conservati, molti altri sono stati sciacallati nel corso degli anni da visitatori non autorizzati. Il resto è abbandonato all’impietoso incedere del tempo.

A mettere la parola fine sui manicomi in Italia è stata la legge Basaglia del 13 maggio 1978, la prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Ha preso il nome da Franco Basaglia, un psichiatra convinto che il manicomio non servisse a curare la malattia mentale, ma solo a distruggere il paziente. È interessante notare come, solamente tre anni prima, nel 1975 il nostro Parlamento aveva approvato l’art. 41, una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano introdotta all’interno della legge 663 (meglio nota come Legge Gozzini) nell’ottobre 1986.

Ancor prima, il decreto ministeriale n. 450 del 12 maggio 1977 aveva istituito le carceri speciali, allo scopo di fronteggiare la cosiddetta “emergenza terrorismo”, iniziata due anni prima. Sin dal principio, nel circuito speciale vengono rinchiuse figure molto diverse tra loro: militanti di diverse organizzazioni armate, detenuti per reati comuni insofferenti alle regole carcerarie, rapinatori, persone appartenenti a questa o quell’altra banda organizzata, ma nulla che rimandi a un criterio preciso. La sospensione delle norme ordinarie ha un andamento discontinuo e, di fatto, il trattamento nelle carceri speciali era già di per sé concepito fuori dalle regole dell’ordinamento penitenziario. Nell’autunno ’77 venne aperto il carcere di Novara, dove convogliarono un centinaio di persone con pene relativamente brevi, responsabili di episodi assolutamente minori, sulle quali sperimentare perquisizioni corporali completamente nudi, ispezioni anali, insulti, percosse e distruzione degli oggetti personali all’arrivo.

Sul finire del 1979 il progetto delle “nuove carceri” fece passi avanti e vennero inaugurate alcune fra le prime strutture del carcere moderno: edifici di ferro e cemento, sbarre o reti alle finestre, alte mura, camminamenti delle guardie, botte, isolamento… All’Asinara i libri venivano persino incendiati in sfregio alle idee politiche dei reclusi. Nel braccetto di Foggia le celle sono singole, non vi è nessuna possibilità di socializzare, le ore d’aria sono due a settimana (così come le docce) e rigorosamente in solitudine, niente fornelletti, niente televisione, niente sopravvitto e vitto dell’amministrazione scarsissimo.

Nel 1987 venne varata la legge n. 34 che contiene misure a favore di chi si dissocia dalla lotta armata, che con la sopraccitata Legge Gozzini va a influire sull’istituzione carceraria, fornendo una via d’uscita a quei detenuti dell’esperienza armata che avevano dato vita al movimento della dissociazione, consentendo di diminuire considerevolmente il numero dei prigionieri politici. Essa si occupa prevalentemente di definire gli sconti di pena (dall’ergastolo ai trent’anni, per intenderci). Va da sé che, contemporaneamente, essa comporta un nuovo stigma per chi resta negli “speciali”, nonché un irrigidimento nel trattamento e un isolamento sociale al quale non sarà più possibile trovare sbocchi collettivi. Così, la pena non è più commisurata al reato, bensì diventa una merce scambiabile sul mercato della giustizia. Al contempo, diventa difficile accedere alla semilibertà e ai permessi premio, ovvero a quegli istituti previsti per la risocializzazione del detenuto e per un suo trattamento in chiave rieducativa.

L’art. 10 della legge 663 dell’ottobre 1986 recita: «Dopo l’art. 41 della legge del luglio ’75, è inserito il seguente art. 41 bis: situazioni eccezionali», che si riferiscono a “casi eccezionali di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza”. Il 41 bis consente di attuare punizioni collettive e il suo art. 1 regola le punizioni individuali, tra le quali si annovera il “regime di sorveglianza particolare”, cui può essere sottoposto il detenuto qualora il suo comportamento «comprometta la sicurezza o turbi l’ordine nell’istituto». Nella pratica significa escludere dalla possibilità di accedere ai benefici previsti dalla legge, la limitazione dei colloqui e della corrispondenza, la limitazione della socialità interna e degli oggetti di cui si può disporre. Insomma, una dimensione di carcerazione ad personam. A conti fatti, la legislazione premiale stringe il detenuto dentro una morsa nella quale gli elementari diritti sanciti dalla Costituzione diventano contrattabili.

Nel dicembre 2002 il Parlamento approvò la legge 279, che modifica gli art. 41 e 41 bis, inaugurando nuove strategie che meglio si confanno al mondo globalizzato in materia di lotta al terrorismo interno e internazionale. Secondo le nuove disposizioni, per gli arrestati da quel momento in poi la premialità si sgancia dal comportamento carcerario e si misura sulla base della collaborazione con gli organi giudiziari e la polizia. Tuttavia, la nuova popolazione carceraria non ha le caratteristiche di quella degli anni settanta: non ci sono tra i reclusi migliaia di giovani uomini e donne che hanno cavalcato il loro sogno di rivoluzione inseriti in un contesto ampio e culturalmente vivace. Ci sono invece, in misura sempre crescente, detenuti per droga, immigrati, ragazzi di periferia le cui organizzazioni criminali hanno tutt’al più offerto riparo economico. I detenuti al 41 bis possono fare una sola ora di colloquio al mese attraverso un vetro divisorio e la telefonata di 10 minuti alternativa al colloquio viene registrata. Inoltre, nelle sezioni con regime 41 bis opera un corpo speciale della polizia penitenziaria (il GOM) che può stabilire norme particolari per quel tipo di sezione, e alla sospensione dei diritti si possono aggiungere divieti particolari e specifici, come se si può portare il berretto o acquistare la marmellata.

Se in Italia nel 1978 si abolì l’istituzione dei manicomi, considerata al limite della tortura e lesiva dei basilari diritti umani, allo stesso tempo si è meticolosamente coltivata l’istituzione del carcere duro, nella quale relegare tutte quelle persone che risultano scomode alla società, attuando un regime di torture fisiche e psicologiche che non consentono alcun reinserimento nella società.

Nel marzo 2023 il primo anarchico attentatore detenuto al 41 bis, Alfredo Cospito, ha scritto una lettera toccante nella quale spiega: «La mia lotta contro il 41bis è una lotta individuale da anarchico, perciò porterò avanti la mia lotta fino alle estreme conseguenze, non per un ricatto ma perché questa non è vita. Se l’obiettivo dello Stato italiano è quello di farmi dissociare dalle azioni degli anarchici fuori, sappia che io ricatti non ne subisco. Sono pronto a morire per far conoscere al mondo cosa è veramente il 41 bis».

Il sentimento popolare che dobbiamo indagare è ben spiegato in alcuni versi della celebre canzone Ballata degli impiccati di Fabrizio De André: «Coltiviamo per tutti un rancore che ha l’odore del sangue rappreso / ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso».


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