Le mire Statunitensi in Medioriente si snodano attraverso tre vie principali: la Freedom Coalition in Iran, il Free Syrian Army in Siria e il sostegno agli intenti espansionistici di Erdoğan in Turchia; mentre Russia e Cina hanno già ampiamente dimostrato di preferire l’impiego delle loro forze nel ridefinire l’assetto economico mondiale attraverso i BRICS.
ph. Highgate Cemetery, London (Alice Rondelli)
Nel settembre 2024, Kit Klarenberg e Max Blumenthal hanno pubblicato un interessante articolo su sito web The Gray Zone News che titola: Leaked documents reveal US intel cutout’s Iranian counter-revolution plans.
Il pezzo spiega che: «Documenti trapelati, ottenuti via email da The Grayzone, rivelano un tentativo segreto da parte di agenti americani di attuare un cambio di regime in Iran e di imporre una leadership radicale ai resti del movimento di protesta iraniano contro l’hijab obbligatorio, allo scopo di rovesciare il governo iraniano. L’iniziativa è stata guidata da Carl Gershman, direttore di lunga data del National Endowment for Democracy (NED), un’organizzazione non-profit finanziata dal governo statunitense, che promuove operazioni di cambio di regime in tutto il mondo. Originariamente concepita dalla CIA ai tempi dell’amministrazione Reagan, la NED si è intromessa nelle elezioni e ha sponsorizzato i leader dei colpi di stato dal Nicaragua al Venezuela a Hong Kong e altri.»
Si aggiunge che: «Le fughe di notizie rivelano come Gershman abbia pianificato di incanalare le risorse del Dipartimento di Stato americano nella costruzione di una Iran Freedom Coalition composta da attivisti iraniani filo-occidentali e da agenti neoconservatori statunitensi che chiedono a gran voce un attacco militare americano all’Iran. Mentre mira a “mobilitare il sostegno internazionale” per il movimento ‘Donne, Vita, Libertà’, “e a fare tutto il possibile per aiutare [la loro] lotta”, la Freedom Coalition rappresenta un chiaro tentativo di imporre una leadership esiliata all’opposizione iraniana di base, che è diretta e sponsorizzata dagli elementi più belligeranti di Washington».
Tutto questo ci riporta in maniera assolutamente identica a ciò che è accaduto in Siria quando, già nei primi mesi dopo l’inizio delle sollevazioni popolari del 2011, l’esercito siriano e le forze di sicurezza avevano cominciato a subire un crescente numero di defezioni. Un gruppo di disertori erano riusciti a sfuggire all’uccisione o all’incarcerazione e diedero vita, nel luglio di quello stesso anno, al Free Syrian Army, una formazione paramilitare di opposizione nata – si sostiene – con lo scopo iniziale di proteggere i dimostranti dalle violenze dell’esercito regolare, ma che ben presto si trasformò in un vero e proprio gruppo di resistenza armata, che perseguiva l’obiettivo di deporre al-Asad lanciando operazioni militari contro il regime. Sia il Free Syrian Army che una moltitudine di milizie e formazioni minori (più o meno organizzate e determinante nella loro attività di opposizione al regime) sono state sostenute e foraggiate da diverse potenze straniere, sia in termini strategici che economici.
Il fronte di opposizione al governo del Presidente al-Asad era popolato da gruppi armati di varia natura, composizione, grandezza e capacità caratterizzati da diversi indirizzi politici e religiosi. Questa moltitudine di gruppi armati e milizie locali può essere grossomodo suddivisa in tre macrocategorie, tra le quali figura lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (meglio noto come ISIS), un’organizzazione jihadista salafita radicale nata in Iraq, tra le fila del movimento di al-Qāʿida, durante gli anni della resistenza contro l’occupazione statunitense ed il governo sciita che si era instaurato a Baghdad in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein.
A partire dal 2013 al-Qāʿida è coinvolta attivamente nel conflitto armato siriano, nell’ambito del quale combatte le forze governative, le forze di opposizione più moderate e le milizie curde nel nord della Siria. Nel giugno 2014, dopo essersi assicurati il controllo di ampie fasce di territorio nell’area nord-orientale del Paese, i vertici dello Stato Islamico hanno proclamato la nascita di un califfato islamico nelle zone cadute in loro dominio a cavallo fra Iraq e Siria, stabilendo la capitale ed il quartier generale operativo nella città di Raqqa.
Nel 2021, nel mezzo di una campagna di pubbliche relazioni per riabilitare il gruppo di al-Qāʿida che governa Idlib (allora l’ultima provincia della Siria controllata dai ribelli), l’ex diplomatico statunitense James Jeffrey definì il gruppo una “risorsa” degli Stati Uniti.
Le mire Statunitensi in Medioriente si snodano attraverso tre vie principali: la Freedom Coalition in Iran, il Free Syrian Army in Siria e il sostegno agli intenti espansionistici di Erdoğan in Turchia.
La Turchia condivide con la Siria un confine lungo 900 km che potrebbe fungere da porta d’accesso per le truppe NATO e la Commissione Europea non ha mancato di fornire il suo supporto: «In stretto coordinamento con le autorità turche, l’UE continua a finanziare progetti umanitari in Turchia per fornire ai rifugiati siriani e alle comunità ospitanti il sostegno di cui hanno bisogno. Dal 2012 ha stanziato 3,486 miliardi di euro in finanziamenti umanitari. Dal 2016 ha dato il via al più grande programma umanitario dell’Unione nella sua storia: la Emergency Social Safety Net (ESSN), che ha fornito 80 mesi di assistenza in denaro ininterrotta ai rifugiati in Turchia, con un budget di oltre 2,3 miliardi di euro. L’ultimo trasferimento di denaro tramite la Emergency Social Safety Net ad oltre 1,5 milioni di rifugiati è stato effettuato nel luglio 2023».
Insomma, i rifugiati siriani tornano utili alla Turchia per due ragioni: una, evidentemente, economica; l’altra riguarda la possibilità di ricattare l’Unione Europea in merito alla questione dell’immigrazione.
Allo stesso tempo, la Turchia ha acquistato sistemi di difesa missilistica russi, muovendosi così su due fronti: quello NATO e quello Russo, stratagemma che gli consente di ricoprire un ruolo decisivo circa le sorti del futuro assetto geopolitico Mediorientale.
La Turchia ha, altresì, un ruolo unico nella NATO. Durante la guerra civile siriana transitarono dal territorio turco migliaia di combattenti dello Stato Islamico, il cui passaggio è stato consentito da Washington in chiave anti Assad. La presenza turca nella NATO è essenziale nel Mediterraneo e in Medioriente, sia per contrastare la presenza dell’Iran – nemico di Israele e del suo più stretto alleato, gli Stati Uniti – sia per avere dalla propria parte il Paese economicamente più forte dell’intera area, il cui un allontanamento dalla NATO causerebbe in un grave vuoto nella regione, dove la consolidata presenza russa in Siria e in Libia è vista come potenziale elemento di crisi.
Proprio in virtù di questa unicità geografica, la Turchia è protetta dalle batterie di difesa missilistica Patriots della NATO.
Il confine tra Siria e Turchia fa gola a quest’ultima per via delle risorse economiche presenti sul territorio e gli Stati Uniti stanno permettendo quella che, di fatto, è un’imminente annessione in cambio del sostegno al rovesciamento di al-Assad. La stessa cosa è accaduta in Palestina: la Casa Bianca ha “regalato” ad Israele la Striscia di Gaza per ottenere il sostegno incondizionato di Netanyahu alla destabilizzazione del Medioriente, che continuerà fino al raggiungimento dell’obbiettivo finale: il rovesciamento del regime Iraniano.
I futuri assetti politici dei Paesi coinvolti saranno determinati, come è sempre accaduto, dai governi fantoccio sostenuti e foraggiati dagli Stati Uniti, nel totale disinteresse del bene della popolazione civile.
La Turchia, per quanto possa apparire un elemento instabile, servirà gli interessi della NATO che appare più determinata che mai a raggiungere i suoi scopi; mentre Russia e Cina hanno già ampiamente dimostrato di preferire l’impiego delle loro forze nel ridefinire l’assetto economico mondiale attraverso i BRICS, piuttosto che disperdere risorse ed energie in una guerra di contenimento delle mire Statunitensi.
La gente continuerà a morire, e chi sopravviverà si troverà costretto a dover fuggire da un luogo all’altro in cerca di un rifugio che in Medioriente sembra un “altrove” che non esiste in alcun luogo.