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Immagine del redattoreAlice Rondelli

L'affare del secolo

Israele sta attaccando al contempo Striscia di Gaza, Cisgiordania, Yemen, Libano e Siria. Questo evento non ha precedenti nella storia. E allora come si spiega il defilarsi di molti stati arabi, tra i quali spicca il silenzio assordante dell’Arabia Saudita. Un indizio: follow the money.
Ph. Cimitero Monumentale di Milano, 2024 (Alice Rondelli)

Così scrive il sito web: Workingclasshistory.com: «Il 1° ottobre 2020 due membri della tribù indigena al-Huwaitat in Arabia Saudita sono stati arrestati per aver criticato il governo saudita e il suo progetto di sviluppo NEOM sui social media. Uno di loro è stato trattenuto fuori dall’università Fahad Bin Sultan a Tabuk. Numerosi altri membri della tribù erano stati arrestati, molestati e persino uccisi. Il governo saudita sta sviluppando un nuovo progetto high-tech da 500 miliardi di dollari chiamato NEOM, che include la futuristica città presumibilmente verde nota come The Line, sul territorio di al-Huwaitat. Le autorità offrirono agli indigeni un risarcimento minimo e così circa 20.000 di loro decisero di rifiutare di abbandonare le loro case. Al momento in cui scriviamo (settembre 2023), tre indigeni sono stati condannati a morte e sono in attesa di esecuzione: Shadli, Ibrahim e Ataullah al-Huwaiti».

 

Ma che cos’è il progetto The line?

 

Secondo il sito web www.neom.com: «NEOM è la terra del futuro, in cui le menti più brillanti e i talenti più promettenti hanno il potere di incarnare idee pionieristiche e superare i confini in un mondo ispirato dall’immaginazione».

Il solito, inconsistente manifesto in stile Silicon Valley.

 

Guidato dal Public Investment Fund, NEOM viene promosso come un luogo che dà priorità alle persone e alla natura, creando un nuovo modello di vivere, lavorare e prosperare in modo sostenibile. È un luogo in cui l’umanità può progredire senza compromettere la salute del pianeta.

NEOM ospita:

·       The Line, una lunga città la cui costruzione ha già sollevato questioni ambientali, come lo spostamento forzato della tribù indigena Huwaitat e un gravoso impatto sulla migrazione degli uccelli e sulla fauna selvatica;

·       Oxagon (ovvero: la Neom Industrial City, situata a circa 25 km a nord della città di Duba su una superficie di circa 40 km²), un progetto che si concentrerà sulla produzione moderna, la ricerca industriale e lo sviluppo incentrato sull’espansione del porto di Duba. Un complesso industriale galleggiante a forma di ottagono regolare che sarà il più grande del mondo una volta completato e che fungerà da porto per le rotte marittime attraverso il Mar Rosso;

·       Trojena sarà la prima grande destinazione per lo sci all’aperto nella Penisola araba, situata sulla catena montuosa più alta dell’Arabia Saudita, a circa 50 km dalla costa del Golfo di Aqaba, con altitudini comprese tra 1500 e 2600 metri. WeBuild, inoltre, costruirà le 3 dighe per alimentare un lago di acqua. Il 4 ottobre 2022 a Phnom Penh, in Cambogia, l’assemblea generale del Consiglio Olimpico d’Asia (COA) ha deliberato all’unanimità di assegnare l’organizzazione dei Giochi Asiatici Invernali del 2029 alla città di Neom;

·       Sindalah è una destinazione di lusso insulare in costruzione nella provincia di Tabuk, in Arabia Saudita. L’isola copre un’area totale di 840.000 metri quadri ed è pronta ad accogliere i visitatori nel 2024, diventando la prima regione di Neom ad essere completata.

 

Il Public Investment Fund (PIF) – il cui attuale presidente è il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud – è un fondo sovrano dell’Arabia Saudita con sede a Riad, nonché uno dei più grandi del mondo, con un patrimonio totale stimato di oltre 925 miliardi di dollari. È stato fondato nel 1971 allo scopo di investire per conto del governo dell’Arabia Saudita e dopo aver inizialmente perseguito una politica di investimento prudente e aver fornito prestiti per progetti di sviluppo nazionale, è diventato un investitore globale. Il governo sta pianificando il Saudi Vision 2030 come parte del suo piano di sviluppo.

 

Scrive il Deccan Herald in un articolo datato maggio 2024: «NEOM è immaginata come una città e zona economica futuristica e tecnologicamente avanzata, volta a diversificare l’economia dell’Arabia Saudita, allontanandola dalla dipendenza dal petrolio. (…) Dopo che ieri la BBC ha riferito che le autorità saudite hanno autorizzato l’uso della forza per bonificare il terreno in vista della costruzione di NEOM, con il coinvolgimento di numerose aziende occidentali, elenchiamo alcuni fatti che dovreste conoscere circa il progetto. Il colonnello Rabih Alenezi, ex ufficiale dell’intelligence saudita, ha dichiarato di aver ricevuto l’ordine di sfrattare gli abitanti del villaggio nella regione di Tabuk per spianare la strada a The Line, una componente del progetto NEOM. Un abitante del villaggio, Abdul Rahim al-Huwaiti, è stato colpito a morte mentre protestava contro lo sfratto».

 

NEOM è situata nella regione nord-occidentale dell’Arabia Saudita, vicino ai confini con la Giordania e l’Egitto, lungo la costa del Mar Rosso ed è immaginata come una città e zona economica futuristica e tecnologicamente avanzata, volta a diversificare l’economia dell’Arabia Saudita (…). Si tratta di uno dei progetti di sviluppo più grandi e ambiziosi al mondo, che copre un’area di circa 26.500 chilometri quadrati ed è sostenuto da ingenti investimenti finanziari. L’Arabia Saudita, infatti, ha impegnato oltre 500 miliardi di dollari per il suo sviluppo, con denaro proveniente dal fondo sovrano del Paese (…). All’interno di NEOM, The Line è un progetto di punta concepito come una città lineare lunga 170 chilometri e larga 200 metri, destinata a essere completamente priva di auto».

 

A maggio 2024 Bloomber precisava che: «I sauditi ridimensionano le ambizioni per il progetto nel deserto da 1,5 trilioni di dollari, il quale prevedeva che The Line avrebbe ospitato 1,5 milioni di persone entro il 2030; mentre ora si prevede che entro quella data ci saranno meno di 300.000 persone che vivranno lì».


Il fattore economico, dunque, potrebbe essere il vero, principale motivo per il quale i Sauditi si stanno tenendo fuori dalla polveriera mediorientale, anziché andare in soccorso e difesa dei palestinesi.

 

Secondo un articolo del maggio 2024 pubblicato da Responsible Statecraft seppure considerino la situazione pericolosamente destabilizzante, una manciata di stati arabi, tra cui Egitto, Giordania e Arabia Saudita, hanno iniziato a reprimere l’attivismo pro-Palestina nei loro stessi paesi. «La maggior parte degli stati arabi è generalmente allergica alle proteste popolari», ha affermato Marina Calculli, ricercatrice presso la Columbia University nel Dipartimento di studi mediorientali, sud asiatici e africani «Temono che aprire la sfera pubblica e consentire proteste di solidarietà verso i palestinesi possa incoraggiare proteste contro il governo e le sue politiche in altri campi.»

 

Seppure sensata, questa riflessione può spiegare solo in parte le motivazioni intrinseche al defilarsi dei Sauditi dal conflitto in corso in Medioriente, soprattutto considerando che le aggressioni di Israele nei confronti di numerosi stati sovrani si stanno moltiplicando con grande rapidità.

Striscia di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e Yemen (quest’ultimo recentemente bombardato anche da USA e Gran Bretagna) sono tutti paesi che circondano l’Arabia Saudita che, a ben vedere, potrebbe temere di diventare anch’essa un bersaglio. Tuttavia, Israele non contempla di fare la guerra all’Arabia, perché con questo ricchissimo stato auspica di cominciare a fare affari; seppure tra i due paesi non siano mai intercorse relazioni diplomatiche formali – tanto che l’Arabia Saudita non ha mai riconosciuto la sovranità dello stato di Israele – nel 1947 entrambi hanno votato contro il Partition Plan for Palestine delle Nazioni Unite.

 

Secondo il The Observatory of Economic Complexity il PIL saudita nel 2022 corrispondeva a 1,11 trilioni di dollari e tra il 2012 ed il 2022 è cresciuto del 49,4%, mentre quello di Israele era di 522 miliardi di dollari ed è cresciuto in dieci anni del 99%.

 

Emad Mekay scrive per l’International Bar Association: «Saudi Arabia and Israel quietly prepare “deal of the century”». Nell’articolo, si parla di “accordo del secolo” in riferimento ad una frase coniata dal generale egiziano divenuto presidente Abdel Fatah al-Sisi e ampiamente adottata dai media arabi, secondo il quale tutte le nazioni arabe diventeranno alleate di Israele, portando la pace in Medioriente.

Sostenuta dal soft power (ovvero, la capacità di cooptare, anziché costringere) e dalle ingenti risorse derivanti dal petrolio, oggi l’Arabia Saudita ha superato l’Egitto come leader incontrastato dei paesi arabi.

L’Arabia Saudita e Israele hanno in comune il costante tentativo di limitare la minaccia iraniana e l’opposizione politica islamista sunnita. Nelle parole di un membro influente della famiglia regnante Al Sa'ud, il principe Alwaleed bin Talal: «Per la prima volta, gli interessi dell’Arabia Saudita e di Israele sono quasi paralleli... È incredibile».

Iran e Arabia Saudita, infatti, sono già impegnati in una guerra fredda e Israele è scosso dalla prospettiva di un Iran nucleare. L’Arabia Saudita, dal canto suo, vede la lotta all’opposizione islamista organizzata come una priorità, soprattutto dopo i successi della Primavera araba e Israele condivide le stesse preoccupazioni, poiché teme che una nuova insurrezione porti i governi islamisti a prendere il posto degli attuali regimi impopolari e, in seguito, ad acquisire il controllo di vaste risorse militari.

Anche per Washington, con Trump, arrivò il momento giusto: all’epoca della sua presidenza, egli aveva affermato di essere in grado, più di tutti i suoi predecessori, di avvicinare Israele e Arabia Saudita. Trump nominò il suo confidente, genero e consigliere di punta, Jared Kushner, mediatore di pace in Medio Oriente. Kushner sviluppò una solida relazione con l’uomo forte dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Nel giugno 2017 la Casa Bianca volle celebrare pubblicamente il fatto che l’Air Force One avesse volato direttamente da Riyad a Israele, in occasione della prima visita all’estero di Trump come presidente degli Stati Uniti.

 

Anche il Qatar aveva aperto un contatto parziale con Israele nel 1996, dopo che l’ex emiro Hamad bin Khalifa Al Thani aveva deposto il padre, dimostrando un’ulteriore apertura all’Occidente. All’epoca l’emiro aveva anche permesso ai funzionari israeliani di comparire su Al Jazeera per la prima volta nella storia di un organo di stampa arabo.

Persino il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi si è impegnato per consolidare il suo governo dopo essere salito al potere con un sanguinoso colpo di stato nel 2013 e ha esortato altre nazioni arabe a stipulare un accordo di pace panarabo con Israele che è stato, tra l’altro, un importante sostenitore del governo di al-Sisi.

Al contempo, gli Emirati Arabi Uniti – il più stretto alleato di Riyadh nei paesi del Golfo – ha accettato la prima missione diplomatica israeliana “non convenzionale”. È opinione diffusa che la missione, che lavora sulle energie rinnovabili internazionali, insieme all’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Washington, venga utilizzata come canale per i contatti tra Arabia Saudita e Israele. Per questo motivo ci sono stati, negli anni, diversi incontri tra israeliani e sauditi. Nel 2015, entrambi i Paesi hanno ammesso di aver tenuto incontri segreti per discutere delle ambizioni iraniane nella regione, pur ammettendo che permanevano delle divergenze sul trattamento riservato da Israele ai palestinesi.

Ci sono stati anche incontri pubblici, come quello avvenuto nel 2016 durante il quale l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, ha incontrato e stretto pubblicamente la mano al generale Yaakov Amidror, ex consigliere senior del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu presso il Washington Institute, un think tank pro-Israele a Washington.

Nello stesso anno un ex generale saudita, Anwar Eshki – alla guida di un team di imprenditori e accademici – ha tenuto colloqui senza precedenti con membri israeliani della Knesset (il parlamento monocamerale di Israele). Da allora, Eshki è apparso in televisione parlando a favore di un accordo con Israele.

 

Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd (primo in linea di successione al trono dell’Arabia Saudita) è circondato da consiglieri simpatizzanti verso Israele e ostili a gruppi islamisti come Hamas. Uno di loro è Abdul Rahman al-Rashed, un influente giornalista diventato consigliere politico, la cui retorica anti-Hamas ha normalizzato le critiche al gruppo palestinese nei media sauditi. Al-Rashed ha fatto anche pressioni per etichettare Hamas come organizzazione terroristica.

Nonostante il palese avvicinamento, i sauditi continuano a dire che gli israeliani dovranno offrire ai palestinesi un accordo, qualcosa su cui i sauditi possano costruire. La posizione di partenza dovrebbe essere l’accettazione da parte di Israele della Arab Peace Initiative, promossa dal defunto re Abdullah dell’Arabia Saudita nel 2002. Il piano prevede la creazione di uno stato palestinese sui confini del 1967.

 

Perry Cammack, membro del Carnegie Endowment for International Peace ha affermato che «L’antipatia condivisa tra Arabia Saudita e Israele per l’Iran è il fattore principale che li avvicina. Tuttavia questa relazione rimarrà nell’ombra, sia per la natura della cooperazione, sia perché il riconoscimento diplomatico formale di Israele da parte dell’Arabia Saudita dipende da un accordo di pace israelo-palestinese».

Per oliare gli ingranaggi dell’accordo, i sauditi sostengono che i vantaggi includeranno telecomunicazioni dirette, compagnie aeree israeliane che sorvolano lo spazio aereo degli stati del Golfo e nessuna restrizione commerciale con le aziende israeliane. Gli stessi funzionari israeliani stimano benefici immediati superiori a 45 miliardi di dollari. A quanto si dice, i due paesi hanno già negoziato accordi commerciali non divulgati.

 

Charles Smith, professore emerito di storia mediorientale presso l’Università dell’Arizona ha affermato: «Si tratta di una reciproca manipolazione per fini diversi con una visione condivisa dell’Iran. Israele può vantarsi del suo accesso ai leader arabi, compresi gli Emirati Arabi Uniti, e delle visite israeliane alle conferenze del Golfo, e i sauditi costruiscono la loro reputazione con il Congresso come amichevoli con Israele. Ma la questione palestinese non può essere scartata come spera Netanyahu».

Eppure, il genocidio palestinese ad opera di Israele sta dimostrando il contrario e il defilarsi dell’Arabia Saudita dalla questione sembra confermare che gli interessi economici vengano prima di qualunque altra cosa, nonostante l’Arabia Saudita, come molti altri regimi arabi, preferisca il contatto con Israele, tecnicamente ancora un occupante di terra araba, lontano dallo sguardo del pubblico. I contatti diretti tra Arabia Saudita e Israele sono stati quasi tutti segreti o non ufficiali, con qualche fuga di notizie.

Subito dopo il volo diretto di Trump da Riyad a Tel Aviv, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu scrisse su Twitter: «Spero che un giorno un Primo Ministro israeliano possa volare da Tel Aviv a Riyad»; e il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, chiese «piene relazioni diplomatiche ed economiche».

Al contempo, il ministro dell’intelligence e dei trasporti israeliano Yisrael Katz alla conferenza annuale di Herz liya (sede di nuove iniziative strategiche nazionali israeliane) aveva affermato di volere un trattamento simile per gli israeliani a quello riservato al presidente Trump: «Chiedo a re Salman di invitare il primo ministro di Israele, Netanyahu, a visitare l’Arabia Saudita», definendo il principe Mohammed bin Salman «una persona dinamica, un innovatore che vuole sfondare».

 

Come è immaginabile, sono pochissime le informazioni relative ai rapporti tra lo stato di Israele e l’Arabia Saudita, ma il silenzio assordante di numerosi stati arabi riguardo al genocidio del popolo palestinese ci fa intuire molto più di quanto potrebbe fare qualunque tipo di speculazione.


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