Che le lingue evolvano attraverso l’uso e non per imposizione, è assodato. Questo perché l’idioma appartiene al popolo tanto quanto il popolo gli appartiene, e non si piega al volere dei singoli individui, ma a quello della consuetudine.
Ph. Lago di Mezzola, 2019 (Alice Rondelli)
Secondo la definizione di Treccani lo scevà è «l’adattamento italiano di schwa, (trascrizione tedesca del termine grammaticale ebraico shĕvā /ʃəˈwa/), che può essere tradotto con insignificante, zero o nulla)»; nonché «il nome di un segno paragrafematico ebraico costituito da due puntini [:] posti sotto un grafema normalmente consonantico, utilizzato per indicare l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto».
Lo stesso dizionario, spiega che il segno grafico in forma di stelletta (*), già in uso nei codici latini e greci, serve di richiamo a note poste in margine o a piè di pagina, o per indicare lacuna nel testo od omissioni volontarie di nomi che non si vogliono citare.
Se l’accezione «senza qualità» è già di per sé deprimente, quella di «omissioni volontarie» risulta anche più sgradevole; tuttavia, sono sempre più numerosi gli utenti del web (e non solo) ad utilizzare lo schwa come baluardo di una presunta inclusività sociale.
In merito alla questione, si è espressamente pronunciata l’Accademia della Crusca – istituzione con personalità giuridica pubblica che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana – in un articolo firmato da Paolo D’Achille (professore ordinario di Linguistica Italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre), pubblicato online il 24 settembre 2021.
«Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale». Già questa prima frase basterebbe a spiegare quanto sia inappropriato servirsi dei due segni sopraccitati, al fine di tutelare le identità non binarie. L’italiano, infatti, ha due generi: il maschile e il femminile, ma non il neutro, che invece è presente nello svedese con il pronome hen.
«Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: esso, infatti, è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno». Il lei di cortesia è un perfetto esempio di questa asserzione.
Per giunta, bisogna considerare il fatto che ogni lingua è un organismo naturale che, come tale, evolve in base all’uso della comunità dei parlanti. Per questo motivo «non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire».
È intuitivo, inoltre, che il problema relativo all’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico non sia ovviabile, oltre al fatto che esso viene utilizzato in campo informatico e questo creerebbe ulteriori disguidi.
Quindi, in alternativa, con riferimento alle persone non binarie è stato recentemente suggerito di adottare lo schwa. Secondo il parere dell’Accademia, si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, perché lo schwa non esiste nel repertorio dell’italiano standard; per giunta, esso opacizza la differenza di numero creando un ulteriore disagio, tanto che chi ne sostiene l’uso ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere al simbolo ɜ, come schwa plurale.
Di parere opposto è la linguista Vera Gheno (professoressa presso l’Università di Firenze), che considera lo schwa come un vero e proprio arricchimento della lingua, in quanto consentirebbe di sostituire, in determinati contesti, il maschile generalizzato.
Per farmi un’idea sulla questione, ho provato a immaginare una situazione surreale nella quale un nutrito gruppo di individui stabilisca che per annullare le disuguaglianze sociali, nessuno debba più definirsi in base al mestiere che esercita. Poniamo, ad esempio, che tutte le parole che indicano una professione – come insegnante, idraulico, medico – diventino improvvisamente pericolose per la realizzazione di una società meno discriminatoria e che, quindi, fossimo costretti ad eliminarle dal nostro vocabolario, definendoci semplicemente lavoratori di questo o di quell’altro settore.
Anche in questo caso gli intenti sarebbero lodevoli, tuttavia è insensato aspirare a stravolgere una lingua ogni qualvolta emergano nuove esigenze all’interno della comunità. Per giusta regola, ciò dovrebbe accadere accidentalmente, come quando ci si innamora: capita e basta.
D’altronde, in Italia qualcuno aveva già provato a dirigere la lingua in una direzione precisa, e il tentativo si è rivelato fallimentare.
Il 30 maggio 1926, il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi dovette accordare che i Comuni esentassero la parola bar dalla tassa sulle insegne in lingua straniera. Seppure il vocabolo inglese non sia perfettamente traducibile in italiano, infatti, la corrispondente parola taverna non designerebbe con chiarezza il tipo di esercizio che ormai soleva indicarsi col il termine che il governo Mussolini voleva proibire.
Che le lingue evolvano attraverso l’uso e non per imposizione, è assodato. L’Italiano, ad esempio, deriva dal latino popolare ed è il risultato di una trasformazione linguistica durata secoli, complici anche i cambiamenti storico-politici; al contrario del latino classico, il volgare veniva messo su carta solo per fini pratici, come le transazioni commerciali o gli atti giuridici. Questo perché l’idioma appartiene al popolo tanto quanto il popolo gli appartiene, e non si piega al volere dei singoli individui, ma a quello della consuetudine.
Secondo questo principio, l’utilizzo scritto del segno schwa e dei suoi affini – pur proponendosi come forza eversiva – non porterà facilmente, né rapidamente a una modifica del parlato.
Ciò che sarebbe davvero utile fare è smettere di pensare per sentito dire.
Come scrisse l’autore satirico Karl Krauss: «La libertà di pensiero ce l’abbiamo, ora ci vorrebbe il pensiero».