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Immagine del redattoreAlice Rondelli

INTERVISTA - Restiamo umani

La memoria di Vittorio Arrigoni è la nostra stessa memoria; il suo coraggio quello che ci auspichiamo di avere; e la sua abnegazione per la causa palestinese, un monito contro l’indifferenza di fronte a un genocidio così sfacciato da non avere precedenti nella storia dell’umanità. Voglio ricordare Vik perché, più di chiunque altro, mi ha insegnato l’importanza di restare umani.


«E alla fine sono tornato.

Non sazio del silenzio d’assenzio di una felicità incolta

accollata come un cerotto mal riposto su di una bocca che urla.

Non potevo fare altrimenti (…)»

(Vittorio Arrigoni)

 

 

Vittorio Arrigoni aveva trentasei anni quando è stato ucciso a Gaza, la terra della quale aveva sposato la causa: quella palestinese.

 

Le sue prime esperienze come volontario si svolgono principalmente nei Paesi dell’Est europeo e nell’Africa subsahariana con l’Ong IBO, Soci Costruttori e lo Youth Action for Peace (YAP).

Nel 2002 raggiunge Gerusalemme Est per un primo campo di lavoro in Palestina e successivamente ritorna nei Territori Occupati dove, con altri compagni, inizia quella che diventerà la sua principale ragione di vita: la difesa dei diritti umani attraverso azioni pacifiche di interposizione, proteggendo i piccoli scolari davanti ai tank israeliani, i contadini nella raccolta delle olive, manifestando con i palestinesi contro il muro di separazione, aiutando gli anziani ad attraversare i check point.

Nel 2003 Vittorio viene in contatto con la Ong International Solidarity Movement e da allora non ha mai smesso di prodigarsi per aiutare i gazawi. Guerriglia radio, fondata nel 2004, era il nome del blog e del canale YouTube attraverso il quale dava voce alle sofferenze del popolo palestinese e denunciava la spietata condotta sionista nella Striscia di Gaza.

Nel 2006 è in Congo, per le prime elezioni libere presidenziali dopo trent’anni, come Osservatore Internazionale con l’Associazione Beati i Costruttori di Pace di Padova, accreditata dall’ONU e l’anno dopo è in Libano, nel campo profughi palestinesi di Beddawi.

Inserito nella lista nera degli indesiderabili da Israele, a Vittorio è impedito l’ingresso alle frontiere. Dopo due tentativi di ingresso nel 2005, dove viene picchiato e incarcerato, entra a Gaza via mare il 23 agosto 2008 con le navi Liberty e Free Gaza, che rompono il blocco via mare che dal 1967 Israele impone alla Striscia.

Nello stesso anno ricevette la cittadinanza onoraria palestinese e contestualmente fu incarcerato ed espulso dall’esercito israeliano per aver difeso quindici palestinesi che pescavano nelle proprie acque territoriali.

Quando il 27 dicembre 2008 Israele lancia l’operazione Piombo Fuso Vittorio è l’unico italiano presente nella Striscia. È dappertutto: a raccogliere feriti, sulle ambulanze cecchinate, negli ospedali; ha visto morire gli amici e pianto le centinaia di bambini massacrati. Racconta i giorni della sanguinosa offensiva israeliana in articoli pubblicati da Il Manifesto, raccolti nel libro: Gaza. Restiamo Umani.

Vittorio è ritornato nella Striscia a marzo 2010 e con i compagni dell’ISM, continua la sua missione di attivista per i diritti umani e di testimone, scrivendo di ciò che accade sul suo blog Guerrilla Radio e su PeaceReporter.

La sera del 14 aprile 2011 viene rapito da un presunto gruppo terrorista dichiaratosi afferente all’area jihadista salafita, che non ha mai spiegato le ragioni di quel gesto.

In un video in cui Vittorio viene mostrato bendato e legato, i rapitori accusano l’Italia di essere uno “stato infedele” e l’attivista di essere entrato a Gaza “per diffondere la corruzione”. Viene anche chiesta la scarcerazione del loro leader, Hisham al-Saedni e di altri militanti jihadisti detenuti, minacciando l’uccisione di Vittorio entro il pomeriggio del giorno dopo se le loro richieste non fossero state esaudite.

Il giorno successivo il corpo senza vita dell’uomo venne rinvenuto dalle Brigate Ezzedin al-Quassam nel corso di un blitz in un’abitazione a Gaza.

Vik riposa nel cimitero di Bulciago, a Lecco.

 

La memoria di Vittorio Arrigoni è la nostra stessa memoria; il suo coraggio quello che ci auspichiamo di avere; e la sua abnegazione per la causa palestinese un monito contro l’indifferenza di fronte a un genocidio così sfacciato da non avere precedenti nella storia dell’umanità.

Voglio ricordare Vik perché, più di chiunque altro, mi ha insegnato l’importanza di restare umani.

Quella che segue è l’intervista che sua madre, Egidia Beretta, ha gentilmente acconsentito a concedermi.


 INTERVISTA

 

D. Perché Vittorio scelse proprio la causa palestinese?

 

R. Vittorio è arrivato in Palestina per la prima volta nel 2002, a ventisette anni. Prima aveva già frequentato diversi campi di lavoro internazionali quindi, forse inconsciamente, si preparava proprio a questo incontro. Lui lo dice: «Io sono arrivato in Palestina quando la Palestina mi ha chiamato, quando sono stato pronto per la Palestina». È stato un incontro che, fin da subito, lo ha coinvolto. Questo vedere a Gerusalemme Est, dove era collocato presso un piccolo campo di lavoro, la differenza tra le due parti della città divisa, la presenza dei militari per le strade, il racconto delle violenze che accadevano in Cisgiordania, che lui poi volle andare a testimoniare. Ecco, tutto questo gli fece capire che quello era il posto giusto in cui poter applicare quei principi a cui lui tanto ambiva; e sentiva in questo popolo la forza dei suoi stessi valori, in particolare la voglia di libertà. Quindi, è ritornato in Palestina anche se nel 2005 era stato, più d’una volta, picchiato e arrestato; ma questo, come sottolinea lui, non aveva fatto che alimentare la sua propensione alla ricerca della giustizia e della pace. Poi è arrivata Gaza e nel 2008 è stato l’inizio della scelta definitiva di Vittorio di rimanere a lungo con i palestinesi, pescatori e contadini, a subire, come loro, il primo grande attacco: l’operazione Piombo Fuso, che è durata dal 27 gennaio 2008 al 18 gennaio 2009, senza mezzi di comunicazione, se non i pochi a disposizione dei giornalisti locali. Vittorio è stato, allora, l’unico italiano, l’unico occidentale ad aver preso in mano la penna per raccontare ciò che stava succedendo. E così ha fatto. Gaza era diventata la sua casa e i palestinesi, sia vivi che morti, erano diventati i suoi fratelli, verso i quali sentiva il dovere morale di dare voce a chi voce non aveva.

 


D. Cosa sperava suo figlio per il futuro della Palestina? Era ottimista a riguardo?

 

R. Durante gli anni di Vittorio in Palestina, lui non si esprimeva molto, però aveva una visione lungimirante della situazione: auspicava la nascita di uno Stato per due popoli, che vivessero in pace e che rispettassero diritti e doveri reciproci. Questa cosa, come sappiamo, non è mai avvenuta, tuttavia lui coltivava una piccola speranza a riguardo; anche quando era sotto le bombe con i gazawi sperava che, prima o poi, una forma di pacificazione sarebbe stata trovata. Una forma di reciproca accoglienza. Vittorio, nel suo pensiero, si affidava a ciò che gli dicevano i gazawi: ovvero, che le loro radici erano talmente affondate nel terreno che nessun blindato o carrarmato avrebbe potuto estirparle completamente. Lui contava molto sulla resistenza dei palestinesi, una resistenza morale interiore. Questo era il suo stato d’animo quando si rivolgeva a loro e a noi.

 

 

D. Immagino che lei e il padre di Vittorio foste orgogliosi, ma anche spaventati dalle scelte di vita di vostro figlio. Cosa direbbe ai genitori dei ragazzi che oggi vediamo impegnati in sit-in di protesta in diversi atenei italiani, e non solo, al grido di “Intifada studentesca”?

 

R. Quando io assisto alle manifestazioni dei giovani sono con loro. Ai genitori che si preoccupano direi di non abbandonare i loro figli, di condividere i loro sogni, i loro progetti e propositi, di sostenerli; perché Vittorio contava molto su me e su suo padre per questo, diceva: «Voi siete la mia forza, le mie radici. Io ho bisogno del vostro sostegno». Certamente, non tutto ciò che vedo mi piace. Non mi piacciono gli atti di violenza e vorrei che, tutt’al più, fosse questo che i genitori deplorassero quando parlano con i loro figli. E ai genitori direi – non che io possa dare consigli, perché sono nessuno – io Vittorio l’ho sempre lasciato libero di andare, di coltivare i suoi progetti, i suoi sogni e lui ha risposto in modo meraviglioso alla libertà che gli ho dato. Vorrei che fosse così per tutti i genitori e per tutti i ragazzi, che sappiano rispondere alla fiducia e alla liberta che i genitori offrono loro con azioni altrettanto buone, impegnative e importanti.

 

 

D. Secondo lei le istituzioni italiane hanno fatto sufficiente chiarezza sulla morte di Vittorio?

 

R. Per quello che riguarda il sequestro di Vittorio, che ha poi portato alla sua morte, io non so rispondere pienamente. Come avviene sempre quando muore un connazionale all’estero, il Procuratore della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo, ma sono certa che non ci siano mai stati contatti tra il governo italiano di allora e le autorità di Gaza. Già fin dall’inizio il governo Berlusconi disse che con Hamas non parlava; poi, tutto venne messo a tacere quando vennero arrestati gli autori dell’omicidio di Vittorio, due dei quali vennero uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas. Dopo di ché si fermò tutto, non si indagò per nulla – per quanto io ne sappia – sulle attività di questo giovane giordano che aveva ideato il rapimento di Vittorio. Devo dire che la cosa non mi angoscia, mi angoscia di più il fatto che Vittorio sia morto e il modo in cui è stato ucciso, rispetto a ciò che le autorità italiane fecero, o non fecero.

 


D. Il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, quindi le chiedo di scegliere una cosa che non le piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo l’attivismo di Vittorio è riuscito a cambiarla in meglio.

 

R. Tra le cose che proprio non mi piacciono del nostro mondo, ci sono: la violenza e la mancanza di solidarietà. La violenza in ogni sua forma, compresa quella degli Stati. Io penso di avere un animo di pace, io amo la pace e credo che gli uomini debbano arrivare a trovarla. La mancanza di solidarietà anche verso i nostri vicini è terribile. Penso che Vittorio ci abbia dato molte lezioni riguardo entrambe le cose: dimostrando che si possa resistere anche con metodi non violenti; lui lo ha fatto andando in mare con i pescatori e mostrandosi ai soldati israeliani in modo pacifico, dicendo semplicemente: «Siamo internazionali». Era il suo modo per affermare il valore della non-violenza. E così pure la solidarietà: lui è riuscito a dimostralo in modo attivo; quando ripeteva: «Restiamo umani», poi aggiungeva: «Bisogna ricordarsi della natura dell’uomo. Non credo nelle bandiere, nelle frontiere e nelle barriere. Apparteniamo tutti, indipendentemente da latitudini e longitudini, alla stessa famiglia: la famiglia umana». Ci ha dimostrato con la sua vita che la solidarietà è possibile e lo ha fatto in modo eroico, rinunciando, come diceva lui, a questo nostro mondo agiato e comodo, al benessere, per mettersi al servizio di chi è povero, di chi è debole, di chi è indifeso, di chi non ha voce. È questa mancanza di solidarietà che a me fa dispiacere e penso che l’esempio di Vittorio ci possa servire a resistere all’oppressione in maniera non-violenta e a mostrare solidarietà anche al vicino; perché, come diceva Vittorio: «La Palestina può essere anche fuori dall’uscio di casa». Quindi apriamo le porte del cuore e guardiamoci intorno, così da trovare anche noi la nostra Palestina da soccorrere.

 


 


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