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Immagine del redattoreAlice Rondelli

INTERVISTA - Non c’è cura senza conflitto

Uno scorcio sulle borgate romane e intervista a "Donne de borgata".

 

Primavalle, Val Melaina, Tufello, San Basilio, Pietralata, Tiburtino III, Gordiani, Tor Marancia, Trullo, Acilia.

 

Sul sito web della sovraintendenza capitolina ai beni culturali si scrive: «La vicenda delle borgate romane si intreccia con la più generale storia contemporanea di Roma, con i tragitti e i percorsi sociali delle persone che l’hanno attraversata e popolata, nonché con la storia della formazione della sua vasta periferia. Tra stratificazioni e paesaggi urbani in continua evoluzione, a questa realtà ci si può accostare ancora oggi in termini di scoperta. Nate in territori di frontiera tra la città e la campagna, le borgate realizzate dall’Istituto Case Popolari dalla seconda metà degli anni Trenta hanno conservato nel processo di espansione urbana una loro distinta identità e sono oggi tra i luoghi più affascinanti e vitali della periferia romana. Seppure afflitte da profondi problemi, nonché prigioniere di antichi e mai del tutto sopiti pregiudizi, appaiono come isole dalle qualità e dalle risorse inaspettate nella “marea” urbanizzata della capitale. (…) Le borgate consolidate furono precedute da soluzioni di carattere provvisorio realizzate dal Governatorato fascista: campi di baracche ufficiali concepiti per alloggiare, isolandoli, gli abitanti delle baracche demolite dal regime e gli sfrattati per fine locazione o morosità in seguito alla liberalizzazione degli affitti decretata nel 1928. Le famigerate borgate di casette governatoriali, programmate per un ciclo di breve durata, costituirono di fatto una delle eredità più dolenti e persistenti del ventennio, in grado di condizionare il successivo sviluppo urbano, politico e sociale della città (…)».

 

Maria Prezioso (professore ordinario presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata) scrive: «Roma è, ancora prima dell’Unità, un sistema urbano unico. Non tanto nella forma urbis, che, come per tutte le grandi capitali, è segnata dalla presenza di un fiume, di colli, green belt, accessi radiali; quanto piuttosto per la sua posizione geografico-economica, storico-monumentale e politica e per le innumerevoli “appercezioni” che suscita. Roma è la città delle piazze (fori, mercati, spazi barocchi; le cento delle periferie), delle mura, dei colombari, dei forti, dei rioni e dei quartieri, delle consolari, dei parchi e degli orti, delle acque. Roma è città “interrotta”, come si diceva negli anni Ottanta parafrasando Piranesi, dove un governo non dura mai abbastanza dall’Unità in poi per vedere realizzato un piano regolatore o un’opera. Roma è la città dei “volti del potere”, laici o religiosi, che l’hanno amata o ripudiata, evocando letteralmente l’idea di una grande città. Una città che amplia il suo respiro sino ai confini della Provincia, concatenando insediamenti urbani e rurali per distribuire flussi (informazioni, persone, energia) oltre la Città; i cui elementi spesso puramente celebrativi e ornamentali (obelischi, cupole, fontane, pini) o produttivi (casali, acquedotti) sono percepiti come ordinatori del paesaggio. (…) La vitalità e le visioni con cui Roma ha proceduto dal 1861 verso la modernità l’hanno trasformata in una griglia di diversità giustapposte, toponimi, micro-paesaggi all’interno di un paesaggio tipico, di alta qualità, sostenuto da una posizione-economica non sempre di rispetto, faticosamente inseguita nel panorama italiano e internazionale delle grandi città-capitale centri e motori direzionali e dello sviluppo».

 

Flavio Conia (archivista laureato presso l’Università La Sapienza) scrive: «Così narra Alberto Moravia nel suo racconto “Il Pupo” del 1954: “Ebbene, io vivo a Tor Marancia, con mia moglie e sei figli, in una stanza che è tutta una distesa di materassi, e quando piove, l’acqua ci va e viene come sulle banchine di Ripetta”. Una narrazione non romanzata, ma ben attinente alla realtà vissuta dai residenti della borgata. Essa, nei primi anni Trenta del Novecento, nasceva su quelli che erano stati i terreni della tenuta omonima del Conte De Merode, in un’area non priva di accampamenti e baracche, i cui inquilini avrebbero popolato, in seguito, le case del nuovo quartiere. Molti venivano dalle baracche della borgata laurentina, situata nell’area in cui si costruì il quartiere denominato Montagnola, dove gli occupanti delle baracche erano definiti “cicoriari” e “colonia abruzzese”. Poco distante dalla Garbatella, ma di differente genesi e forma architettonica, Tor Marancia può divenire un caso di studio ottimale per approfondire il tessuto sociale in borgate romane ancora poco studiate e approfondite nella loro genesi, nel loro sviluppo e nella loro evoluzione. Conosciuto ai più ad oggi come il quartiere della street art, in seguito all’intervento artistico “Big City Life”, che ha visto diversi artisti internazionali dare un nuovo volto ad uno dei lotti di edilizia popolare in un’ottica di riqualificazione, Tor Marancia non ha vissuto la stessa fortuna di studi ed approfondimenti dei quartieri limitrofi: basti pensare alla già citata Garbatella, al quartiere San Paolo o a San Saba per rendersi conto della differenza di attenzione in merito alle vicende che hanno portato alla costruzione della borgata. A Tor Marancia e a Primavalle, la costruzione dei ricoveri e delle casette rapide da parte del Governatorato di Roma iniziò nel 1929, gli alloggi erano destinati alle famiglie sfrattate a seguito delle opere di urbanizzazione legate al nuovo piano regolatore e a nuclei familiari che vedevano le proprie abitazioni di fortuna abbattute. Successivamente in questi locali furono alloggiati gli abitanti delle baracche e dei villaggi “abissini”. Il 12 settembre del 1927 il Prefetto del Regno, Segretario Generale del Governatorato, scriveva ad Agostino De Pretis, delegato all’assistenza sociale, riguardo al piano di demolizione delle baracche realizzato dall’ufficio preposto: l’abbattimento doveva andare di pari passo con la costruzione di alloggi popolari da assegnare a chi era stato cacciato dalle baracche abbattute. Inoltre, le demolizioni dovevano seguire la gradualità dell’attuazione del Piano Regolatore, tutto ciò, in linea con la dualità evidente nella progettazione urbanistica fascista, fondata su criteri opposti nel trattamento del centro della città rispetto allo sviluppo periferico, privilegiando la prima e nascondendo le gravi mancanze della seconda».

 

Il 6 ottobre 2023, in una lettera pubblica indirizzata alle amministrazioni di Roma, intitolata “Quarticciolo Alza la Voce” e condivisa dall’assemblea delle abitanti e degli abitanti, si scrive: «Basta Abbandono. Quarticciolo alza la voce! (…) Vivere a Quarticciolo è sempre più difficile, chiediamo un impegno serio delle istituzioni competenti per affrontare i problemi del quartiere, non ne possiamo più di retate e operazioni ad “alto impatto” che non risolvono nulla, vogliamo soluzioni. Se la borgata è diventata invivibile è perché troppi sono gli spazi abbandonati, troppi i progetti iniziati e non finiti, troppe le serrande abbassate. Notizia di questi giorni è che anche il forno in piazza sta gettando la spugna: un altro locale commerciale destinato a non riaprire mai più.

È nel deserto delle attività e tra i ruderi dei cantieri abbandonati che trovano spazio la disperazione e la rassegnazione. Abbiamo bisogno di creare opportunità per gli abitanti e le abitanti, di presidiare e curare gli spazi pubblici, di creare occasioni in cui Quarticciolo sia una borgata accogliente come è sempre stata. Dal basso ci impegniamo ogni giorno in questa direzione: la parrocchia, la palestra popolare, il doposcuola, i centri anziani, le attività commerciali, i singoli cittadini e le singole cittadine, fanno un lavoro quotidiano enorme per proporre un’aggregazione sana e per segnalare alle amministrazioni le troppe inefficienze che affliggono il quartiere, ma da soli non possiamo farcela.

(…) Non sta a noi terminare i cantieri di via Ugento (…), non sta a noi riaprire la Piscina comunale, centro nevralgico del quartiere (…), non possiamo essere noi a riparare il tetto della scuola di Via Pirotta in cui da mesi piove dentro, tanto che le lezioni sono state spostate nei corridoi (…). Dalla borgata continuiamo a fare la nostra parte contro l’abbandono, ma è ora che chi ha le risorse, gli strumenti e le competenze si prenda la responsabilità e faccia la sua parte. È ora che le opere non vengano solo annunciate, iniziate e mai finite, ma vengano terminate in tempi brevi».

 

Credi sia impossibile comprendere e scrivere di Roma se non ci si è nati e cresciuti. Tuttavia, se c’è una cosa che ho compreso, facendo ricerche per scrivere questo pezzo, è che il confitto tra i romani e le istituzioni che governano la città sono numerosi e molto radicati. Il tessuto sociale, così come quello urbano, necessita di cure mirate a risolvere i problemi più gravi che, come sempre accade, colpiscono le fasce di popolazione più povere e, dunque, più indifese. Ma la “città” è tutt’altro che inerme: le persone non si limitano a manifestare il proprio malcontento, si danno da fare per trovare soluzioni e per metterle in pratica.

Dall’inizio della guerra in Ucraina al febbraio 2024, l’Italia ha versato circa 16 miliardi di euro al direttamente al governo Zelensky e all’Unione Europea, per coprire le spese della difesa e, dunque, foraggiare l’industria bellica, anziché premere per una soluzione diplomatica delle controversie con la Russia. È difficile non pensare a quante indispensabili migliorie alle città italiane potevano essere compiute con tutto quel denaro e a quanto, di conseguenza, la qualità della vita dei cittadini sarebbe potuta crescere. Gli abitanti delle borgate sono un simbolo dell’abbandono in cui si trovano le persone e di come lo Stato sia ormai incapace (o, per meglio dire, disinteressato) al benessere dei suoi figli. Il grande padre di famiglia non è più un rifugio sicuro, ma solamente una grande macchina mangia soldi che in cambio non offre che briciole.

 

 


INTERVISTA

Donne de borgata

 

 

D. Come e perché nasce “Donne de borgata”? Quali sono i vostri propositi e le vostre necessità più impellenti?


R. “Donne de borgata” è un gruppo nato poco più di un anno fa, che vede al suo interno giovani, studentesse (universitarie e liceali), lavoratrici (per lo più precarie), disoccupate, madri… che si sono ritrovate ad avere una comune visione della realtà che ci circonda. E la nostra è una realtà che, innegabilmente, mette in difficoltà le donne che vivono nei quartieri popolari e nelle periferie, partendo da un discorso di ricerca di indipendenza economica che ci consenta di coltivare delle certezze per il futuro. È un presente fatto di instabilità il nostro, ci si ritrova in situazioni economiche davvero al limite e non veniamo sostenute né prese in considerazione dal governo, oggi come ieri. Il nostro primo proposito è quello di creare uno spazio in cui parlare dei problemi che tutte noi affrontiamo quotidianamente: dalla difficoltà di prendere i mezzi, all’avere un lavoro che non sia sottopagato o temporaneo. Tutte cose che, come dicevo pocanzi, non ci permettono di aspirare ad avere l’indispensabile indipendenza economica. Però, quello da cui siamo volute partire, il nostro primo momento pubblico in piazza al quale abbiamo partecipato come “Donne de borgata”, è stata la manifestazione del 25 novembre, perché non vogliamo più essere vittime e considerate come tali: rifiutiamo questo ruolo! Non siamo e non vogliamo essere vittime di un’impostazione profondamente ingiusta. Quello che vogliamo provare a fare è di dotarci di strumenti che ci consentano di portare avanti la lotta e il dibattito, a partire da quelli che sono i reali problemi delle donne che vivono nelle periferie di Roma. Desideriamo superare i limiti che ci vengono imposti, per non esser inquadrate in categorie che ci limitino in tutti gli aspetti della nostra vita.

 


D. Sono convinta che una società diversa da quella nella quale viviamo, che affoga nel mare degli interessi personalistici, possa nascere solo con un impegno diretto che proviene da noi cittadini, concentrato sulla cura di ciò che ci circonda. La realtà di borgata, più di ogni altra, offre uno spunto di riflessione su questa tematica e potrebbe addirittura diventare un modello di riferimento sul quale costruire un nuovo sistema di funzionamento della nostra società. Cosa ne pensate?

 

R. Le borgate sono un esempio straordinario di quanto sia importante la comunità e il senso di appartenenza che lega le persone che condividono lo stesso destino. Questo è uno dei fattori fondamentali rispetto al lavoro che stiamo facendo. La cosa essenziale, che dobbiamo tenere a mente, è che facciamo tutti parte di una collettività e questo ci può aiutare a combattere quell’individualismo di cui parlavi. È importante lottare insieme per portare avanti le proprie idee. Questo è ciò che l’esperienza dei quartieri popolari può insegnare.

 

 

D. La decisione di creare un nuovo spazio di aggregazione, anziché associarvi a uno dei tanti già esistenti, dipende dalla necessità di tutelare la vostra identità di donne, studentesse e lavoratrici che vivono una realtà – quella di borgata – che dal di fuori non è comprensibile?

 

R. Noi abbiamo deciso di partire da quelli che sono i quartieri popolari, proprio perché sono luoghi lasciati indietro, assieme a chi li abita. I diritti, le necessità… non vengono considerati. Siamo partite dal quadrante Tiburtino, dove grazie al comitato “Pietralata unita” abbiamo iniziato a fare un lavoro sul quartiere. Ci stiamo muovendo anche relativamente al consultorio, dove a breve aprirà l’assemblea delle donne e delle libere soggettività. Abbiamo iniziato da questi punti perché toccano questioni urgenti in quartieri dove c’è una mancanza di servizi importanti, che sono stati lasciati indietro dallo Stato e che vengono dipinti come terre “strane”, dove succede la qualunque… Dove l’idea che non sia possibile un intervento va per la maggiore e di pari passo con la convinzione che non ci possano essere dei miglioramenti. Per esempio, quando è avvenuto l’omicidio di Michelle (NdR Il 28 giugno 2023 la diciassettenne romana Michelle Causo è stata uccida a coltellate da un coetaneo, che ha poi abbandonato il suo corpo in un carrello della spesa lasciato in strada), il quartiere di Primavalle è stato dipinto come un luogo pieno di delinquenti, mentre è un normale quartiere di periferia che ha fatto da sfondo ad una tragedia che poteva essere evitata. Questo è solo uno dei numerosi casi di femminicidio ai quali assistiamo di continuo e che avvengono dovunque.

 


D. Ho una mia idea relativa alla gestione del territorio, per le grandi città non basta un sindaco: servirebbe, ad esempio, che le borgate potessero dotarsi di un proprio organo decisionale istituito a norma di legge. Che ne pensate?

 

R. Comprendo che la gestione di un territorio grande come quello di Roma sia particolarmente difficile e che richieda, quindi, uno sforzo di buona volontà non indifferente; però, come dicevo, le fasce popolari che vivono nelle borgate sono quelle più in difficoltà, in particolar modo le donne, le giovani, le studentesse, le libere soggettività che vivono all’interno di queste realtà sono quelle che più risentono dei rincari, della mancanza dei servizi, dell’assenza di un alloggio sicuro… Tutte cose che fanno parte dei diritti del cittadino, che tenta di vivere in modo normale una realtà che normale non è. Quindi, penso che il governo non possa prescindere dal discorso che riguarda le fasce fragili della popolazione, che deve essere rimessa al centro del dibattito pubblico e che richiede di essere tutelata e di sentire il sostegno dello Stato, mentre si ritrova completamente abbandonata a se stesa.

 


D. Il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, quindi vi chiedo di scegliere una cosa che non vi piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo le vostre iniziative potrebbero cambiarla in meglio.

 

R. Ci sono tante cose che secondo noi ci sarebbero da fare, da cambiare o da rifare da capo, ma un argomento cardine è quello della resistenza palestinese e del genocidio alla luce del sole, che da decenni viene giustificato dai governi occidentali e sostenuto mettendo in campo gli armamenti (mi riferisco a ciò che sta accadendo nel Mar Rosso). Quello che pensiamo è che è fondamentale sostenere i palestinesi e soprattutto rivendicare il diritto alla resistenza di un popolo che subisce un regime di apartheid da parte di Israele e dei suoi coloni. Quello che vogliamo fare è creare un dibattito e portarlo avanti, in primis tra di noi, inserendoci all’interno delle mobilitazioni. Il nostro appello: “Non in nostro nome” mira a smascherare la continua strumentalizzazione, ad opera di media e governi, dell’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Secondo molti, in quella data si è verificato un femminicidio di massa in Israele, ma non è la realtà dei fatti e comunque non si possono utilizzare le donne per giustificare la pulizia etnica del popolo palestinese. Noi vogliamo mantenere alta l’attenzione su questi fatti e per farlo abbiamo già organizzato una prima assemblea che si è svolta l’8 febbraio. Senza la libertà dei popoli non ci può essere libertà per nessuno, neanche per noi.



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