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Immagine del redattoreAlice Rondelli

INTERVISTA - La gaiezza chimica

La follia è il male, il male malato da combattere. Questo è il mandato sociale degli psichiatri: curare, o meglio, punire, l’irrazionalità. Patologie e farmaci, tuttavia, sembrano avere solo una cosa in comune: la mano del loro creatore.

Piero Cipriano è uno psichiatra e psicoterapeuta di formazione cognitivista e etnopsichiatrica. Si è diplomato al liceo scientifico, per poi conseguire la laurea in medicina e psichiatria a Roma. Successivamente si è specializzato in psicologia cognitiva ed in seguito ha conseguito un master in etnopsichiatria al Centre George Devereux. Ha lavorato per quasi trent’anni con i pazienti psichiatrici. È autore di numerosi saggi, tra i quali: La fabbrica della cura mentale, La società dei devianti, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria. Dopo 17 anni passati ad esercitare la professione di psichiatra in un SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), da settembre 2024 comincerà a lavorare presso un SERD (Servizi per le Dipendenze patologiche).

 

Nel suo libro Il manicomio chimico (edito nel 2015 dalla casa editrice Elèuthera), lo psichiatra Piero Cipriano espone con chiarezza e fervore la terribile condizione in cui versa la psichiatria moderna.  Manuali diagnostici, farmaci e contenzione la fanno da padrona anche in Italia, nonostante la storica battaglia di Franco Basaglia per la chiusura dei manicomi, diventata realtà nel 1978 con la legge n.180.


L’ultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5-TR) è stata aggiornata nel 2022 e fornisce un sistema di classificazione che tenta di suddividere le malattie mentali in categorie diagnostiche sulla base della descrizione dei sintomi (ovvero, le modalità espressive e comportamentali dei soggetti come riflesso dei propri pensieri ed emozioni) e del decorso della malattia.

Cipriano, nel suo libro, analizza i cambiamenti apportati alla penultima versione, quella del 2013 (DSM-5). «Le prime due edizioni del manuale non sono importanti» spiega lo psichiatra «perché sono elenchi banali di entità nosografiche (NdR: la nosografia è lo studio puramente descrittivo delle malattie). Invece, sono i DSM-III e DSM-IV del 1984 e 1994 a segnare una svolta radicale rispetto ai precedenti». Infatti, per i primi due le scuole continuavano ad avere criteri diagnostici diversi tra loro, mentre i successivi ebbero lo scopo di uniformare le diagnosi psichiatriche. Per rendere ciò possibile, la task force del DSM-III, sotto la guida dello psichiatra Robert Spitzer scelse di escludere tutte le teorie eziopatogeniche (NdR: l’eziopatogenesi è lo studio delle cause di una malattia e del loro meccanismo di azione) delle varie scuole, basandosi, per formulare le diagnosi, esclusivamente sui sintomi osservabili; per cui, ogni disturbo ebbe un certo numero di sintomi necessari per fare la diagnosi.

Lo scopo dei manuali è quello di aumentare l’attendibilità delle diagnosi, ma non di migliorare la validità delle stesse. Per spiegare quest’affermazione, basta fare riferimento alle parole di Robert Spitzer e di Allen Frances, i due psichiatri più influenti degli ultimi decenni.

«Nel 2013, infatti, entrambi criticarono il DSM-5, sostenendo che quel tipo di sistema diagnostico abbia contribuito ad abbassare la soglia di molte diagnosi, creando un numero sterminato di falsi positivi psichiatrici, con il risultato di medicalizzare una fetta della popolazione che avrebbe potuto (senza i loro manuali diagnostici) fare a meno degli psicofarmaci. Creando vere e proprie epidemie di disturbi un tempo rari, in particolar modo l’autismo, l’ADHD e i disturbi dell’umore nell’infanzia e nell’adolescenza.»

Allen Frances si spingerà ad aggiungere che «i disturbi mentali non sono là fuori, sono solo costrutti che abbiamo inventato».

Sul come questi costrutti siano stati creati e smantellati a seconda della necessità, Cipriano porta due esempi lampanti: quando nel 1973, a seguito delle pressioni della comunità gay e dell’associazione americana degli psichiatri gay, l’omosessualità venne cancellata dal DSM-II; e quando l’associazione dei Vietnam Veterans Against the War riuscì, nel 1978, a far riconoscere la propria patologia, che fu chiamata disturbo post traumatico da stress, così da poter accedere alle cure e agli indennizzi statali.

 

Aveva dunque ragione Thomas Szsaz a sostenere che la malattia mentale è un mito e la psichiatria politica?

Szsaz fu il primo antipsichiatra e comparve sulla scena nel 1961, quando pubblicò Il mito della malattia mentale. Nonostante lui e Basaglia condividessero alcune opinioni, a differenza dell’italiano, l’ungherese aveva scelto di ricusare la pratica medica, non mettendo mai piede in un ospedale e non prescrivendo mai un farmaco. Franco Basaglia, invece, «aveva accettato di non essere puro come Szsaz, aveva accettato la contraddizione di prescrivere psicofarmaci, e di continuare ad avere persone legate, e rinchiuse, ma riuscendo (…) a far diventare la sua azione, il suo principio (la libertà è terapeutica) una legge dello stato».

Disse Basaglia: «Io non sono un’antipsichiatra, perché questo è un tipo di intellettuale che rifiuto. Io sono uno psichiatra che vuole dare al paziente una risposta alternativa a quella che gli è stata data finora». Egli voleva condurre la sua battaglia attraverso il ruolo che ricopriva, e ci riuscì.

Franco Basaglia scelse di abbracciare tutto della sua professione, lavorando in diversi manicomi (tra i quali quello di Gorizia e quello di Trieste, che fu il primo a far chiudere, prima ancora che venisse approvata la legge n.180), mentre gli antipsichiatri come Szasz non riuscirono, nel concreto, a cambiare proprio nulla, anzi, il loro coinvolgimento con Scientology minò irrimediabilmente la credibilità delle sue tesi.


Insomma, gli stessi ideatori del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders ne hanno, seppure tardivamente, criticato la validità. Questo perché, anche se la medicina si è prodigata in sfacciate campagne propagandistiche a favore delle molecole create dalle case farmaceutiche per curare i disturbi psichici, non è a tutt’oggi stata prodotta alcuna prova scientifica dell’esistenza del cosiddetto broken brain, secondo il cui assunto ogni patologia psichiatrica avrebbe basi biologiche sulle quali i farmaci possono intervenire efficacemente.

 

Il testo di Cipriano sviscera l’argomento con dovizia di particolari, ma a noi bastano poche nozioni di base per definire la questione.

A fine Settecento venne inventata l’istituzione manicomio; fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, i malati venivano curati con elettroshock e lobotomie; successivamente, vennero create diverse molecole per curare i presunti disturbi psichiatrici: clorpromazina (neurolettico), iproniazide e imipramina (antidepressivi, anche detti energizzanti), clordiazepossido e benzodiazepine (ansiolitici), litio (stabilizzante dell’umore) e molecole a rilascio lento (neurolettici long action).

Come sottolinea Cipriano, gli studi dimostrano che «continuando ad assumerle per più di qualche settimana si determina una progressiva riduzione della loro efficacia con necessità di aumentarne il dosaggio, e se la persona che le prende decide di liberarsene ex abrupto (NdR all’improvviso), va incontro a una sindrome da sospensione davvero terribile». In altre parole, interrompendo l’assunzione degli psicofarmaci i sintomi del paziente peggiorano e, per giunta, ne subentrano di nuovi, che a loro volta necessiteranno dell’assunzione di nuovi farmaci.

Non solo, è provato che l’uso prolungato di psicofarmaci comporti l’insorgenza di una lunga serie di malattie anche gravi, tra le quali il diabete e l’ipertensione, che dovranno essere curati da altri farmaci ancora.

Tutto questo, senza tener conto del fattore “dipendenza”. I pazienti, essendo occorsi nuovi disturbi psichiatrici, non riescono più a fare a meno di assumere i medicamenti e l’aumento progressivo ed inarrestabile della dose degli stessi non fa che peggiorarne la dipendenza.

 

Questi sono i motivi per cui Cipriano sostiene la necessità di utilizzare gli psicofarmaci solo in casi di effettiva necessità e solo per un breve periodo di tempo. A questo proposito bisogna sottolineare l’avvento, voluto e fortemente sponsorizzato dalle case farmaceutiche, della cosiddetta cosmesi farmacologica. Ad un certo punto, infatti, precisamente nel 1993, lo psichiatra Peter Kramer sostenne in un suo libro che la fluoxetina (che la Eli Lilly aveva cominciato a commercializzare) non fosse soltanto un antidepressivo, ma una molecola che consentiva alle persone di non sentirsi “semplicemente bene” in un momento di difficoltà, ma di sentirsi “ben sempre”. Si passava quindi dall’essere individui eutimici (ovvero di “umore normale”) all’essere ipertimici (cioè caratterizzati da tratti esuberanti, energici, con elevata autostima, stabili per tutta la vita).

Nel frattempo, vale la pena sottolineare che le entrate della casa farmaceutica Eli Lilly passarono da 2,3 miliardi di dollari nel 1987 ai 10,8 miliardi di dollari nel 2000, anno in cui le azioni dell’azienda arrivarono a toccare il valore totale di 90 miliardi di dollari.

 

«La fluoxetina era una sorta di cocaina legalizzata», spiega Cipriano, coniando il termine “gaiezza chimica”, che era ciò che vedeva negli occhi dei suoi pazienti che la assumevano.

Ma questa felicità sintetica non è priva di conseguenze. Infatti, alcuni sostengono che l’uso prolungato di psicofarmaci possa condurre a sviluppare la schizofrenia, malattia della quale ancora non si conoscono le cause e che, probabilmente, ha un’eziologia che cambia a seconda del paziente: ovvero, le cause scatenanti non sono le stesse per tutti.

«Gli psichiatri mondiali ammettono che la schizofrenia ha enormi buchi di conoscenza (…), che vi sono molti fattori ambientali coinvolti nella sua eziopatogenesi (…) e tuttavia ammettono con rammarico che non esista alcun marker certo.»

Secondo alcuni medici, l’uso di cannabis ricoprirebbe il primo posto dei marker, perché l’ingrediente psicoattivo tetraidrocannabinolo (THC) – stimolante del sistema nervoso centrale – contenuto nel prodotto che viene venduto oggi (tipo skunk), sarebbe venti volte maggiore del normale a causa degli innesti creati dai coltivatori; mentre il cannabidiolo (CB), inibente che neutralizzava il primo, sarebbe pressoché assente.

Spiega Cipriano: «La tesi della psichiatria moderna è: cannabis + miseria = innesco di malattia mentale in soggetti predisposti. La mia integrazione a questa tesi è: psicofarmaci assunti per molti anni + miseria = mantenimento/cronicizzazione della malattia mentale, eventualmente iniziata per l’uso di cannabis (o di altre droghe) + miseria. Insomma, alla fine mi pare che con la malattia mentale la miseria c’entri sempre.»

Gli psichiatri moderni ammettono che non esiste un solo tipo di schizofrenia, tuttavia sostengono che in ognuno di essi sia sempre implicato un disturbo del neurosviluppo. Ma oggi sappiamo che il nostro cervello è plastico per tutta la vita, e produce di continuo nuove sinapsi, connessioni neurali, e soprattutto possiede cellule staminali in grado di generare nuovi neuroni.

«Se talvolta le droghe innescano le psicosi, gli psicofarmaci le mantengono» sostiene Cipriano.

 

È a questo punto che l’autore dedica un capitolo alla relazione tra miseria e follia.

«Quattro sarebbero, secondo questa moderna visione della psichiatria, i fattori di rischio per il cosiddetto disturbo schizofrenico: cannabis, traumi precoci, fattori etnici e vivere in ambienti sovraffollati. Ma pure l’ADHD (Disturbo da deficit di attenzione e iperattività) è da taluni considerato in continuità con la schizofrenia; più che in relazione con cause genetiche, essa pare determinata da condizioni ambientali: nascita prematura, madre adolescente, povertà, bassa scolarità dei genitori. Insomma, per entrambe queste sindromi le disuguaglianze sociali sembrano fattori di rischio molto importanti. Non per niente Franco Basaglia sosteneva che nei manicomi venisse segregata la miseria. Ed effettivamente, la psicoterapia, oggigiorno è un affare di classe sociale e i centri SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) sono piccoli reparti di massimo 15 posti collocati negli ospedali generali, pensati per coloro i quali non possono permettersi il lusso della prima.

Fare abbuffare di farmaci i pazienti serve a risparmiare sulle cure psicologiche fornite da personale competente e in numero adeguato. Basti pensare a quanto sia più semplice dirigere un reparto di psichiatria in cui i pazienti vengono contenuti con le fasce al loro letto, per poi essere costretti a ingurgitare psicofarmaci su psicofarmaci. D’altronde, il personale sanitario costa e così ci guadagnano tutti: lo Stato, che continua inesorabilmente a tagliare i fondi alla sanità, e le case farmaceutiche, che si arricchiscono sulla pelle degli indifesi.

 

Il giornalista scientifico americano Robert Whitaker riportò in un suo libro un interessante studio effettuato da Martin Harrow, che nel 2007 presentò i dati che aveva rilevato tra il 1975 e il 1983 tra i suoi sessantaquattro giovani pazienti con diagnosi di schizofrenia. Dopo il quindicesimo anno dall’inizio dello studio il 40% dei pazienti non trattato farmacologicamente era guarito e il 50% lavorava; mentre dei pazienti trattati con i farmaci il 5% era guarito e il 64% aveva una sintomatologia psicotica.

Tuttavia, Whitaker dovette constatare che nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia (ovvero 1 ogni 617 abitanti); nel 2010, invece, esistevano quasi 2 milioni e mezzo di persone con questa diagnosi (ovvero 1 ogni 125 abitanti). Qualcosa non funzionava nella rivoluzione psicofarmacologica, ma la sua avanzata non si è affatto arrestata.

 

Non solo la psichiatria si concentra troppo sulla patologia e poco sugli individui che ne presentano i sintomi, ma si fa usare dalle case farmaceutiche per partecipare alla massiccia propaganda a favore degli psicofarmaci, senza che vi sia alcuna prova in merito alla loro effettiva efficacia.

È tutto un grande gioco di prestigio: le aziende offrono agli psichiatri cene, convegni, gadget e cadeaux vari per spingere una molecola in particolare piuttosto che un’altra, e loro le prescrivono ai pazienti senza farsi troppe domande.

Un lampante esempio di ciò è il fatto che a partire dagli anni Novanta, tutta una serie di farmaci antiepilettici siano stati ribattezzati stabilizzatori dell’umore, i neurolettici promossi ad antipsicotici e gli energizzanti trasformati in antidepressivi.

«Perché la psichiatria è una scienza prevalentemente nominalistica», scrive Cipriano.

Quando i pazienti con disturbo bipolare cominciarono a sviluppare una forte farmacoresistenza, iniziarono ad essere trattati con gli ormai tristemente celebri cocktail di farmaci e tutti i pazienti vennero curati, più o meno allo stesso modo, indipendentemente dal disturbo che li affliggeva. Secondo Whitaker questa “tecnica compensatoria” consegue nel fatto che «il cervello reagisce alla terapia psicofarmacologica con una serie di adattamenti compensatori» per cui a un certo punto comincia veramente a «funzionare in modo anormale». Dunque, invece di rimettere a posto squilibri chimici (mai dimostrati), i farmaci psicotropi li creano.

 

Qui veniamo ad un altro punto fondamentale del testo di Cipriano: i metodi utilizzati nelle strutture SPDC e nelle REM (strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi).

La contenzione forzata con fasce al posto del dialogo con il paziente è un problema non solo etico, ma anche di tipo pratico. Lo psichiatra non ha tempo da perdere nel creare una relazione con il paziente e ciò impedisce ai due individui di instaurare quel tipo di rapporto di fiducia propedeutico alla cura.

«I pazienti già legati sanno come va a finire. Sanno che la loro crisi sarà una guerra, un combattimento tra loro e i sanitari. E allora anticipano gli eventi. Provocano la contenzione. Si fanno legare. Ma penso pure un’altra cosa. Penso che certi luoghi mortificanti modellino, con le loro pratiche coercitive, un’antropologia peculiare di operatori.»

Il fenomeno studiato è il cosiddetto Effetto Lucifero, un modo di spiegare la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Come i burocrati nazisti, gli operatori sanitari sono dei poveri diavoli, grigi burocrati senza un minimo di empatia, che eseguono gli ordini che gli vengono impartiti.

In tutti i contesti istituzionalizzati e/o totalitari (manicomi, carceri, caserme), in cui gli individui perdono la loro umanità e la loro individualità, sono in grado di diventare maligni.

«Il male non è radicale, è banale. Anzi, è normale.»

Può sembrare durissima questa asserzione di Cipriano, ma le sue parole sono frutto di una lunga esperienza sul campo. Per lo psichiatra, cambiare l’approccio al paziente ed eliminare la contenzione è la chiave per una vera svolta nel trattamento dei malati psichiatrici.

Non aggiungerò altro in merito, perché Cipriano ha destinato una buona parte del suo libro a sviscerare questo argomento, che è importante tanto quanto lo è la faccenda delle case farmaceutiche insaziabili di “matti” ai quali vendere le proprie pilloline magiche.

 

Piero Cipriano è un’utopista, come lo era anche Franco Basaglia e come il suo maestro ha compreso che tra il sogno e la sua realizzazione non si frappone affatto la speranza, bensì la volontà di cambiare le cose.

 

Nel 1984 Basaglia sosteneva che i manicomi andassero soppressi. I suoi detrattori non attendevano altro che un fatto di cronaca dimostrasse che le sue teorie non erano attuabili nella realtà. E quei fatti qualche volta accaddero. Qualche “matto”, una volta uscito, uccise. Ma perché? Perché non era più rinchiuso, o perché aveva vissuto, prima dentro il manicomio e poi fuori, in un ambiente ostile che lo vedeva non come una persona, ma solamente come un pericolo da neutralizzare ad ogni costo?

«Nel 1978, prima che fosse approvata la legge n.180, Basaglia si disse contrario al TSO (NdR trattamento sanitario obbligatorio) perché rischiava di diventare una sorta di arresto sanitario incontrollabile nelle mani di medici vecchio stampo (e così è stato), e contrario agli SPDC perché sarebbero diventati piccoli manicomi dentro i già inefficienti ospedali civili (e così è stato).»

 

«La violenza umiliante del castigo». Così un giovane scrittore sottoposto a ricovero coatto ha descritto la sua percezione del contenimento, della somministrazione forzata di farmaci e del totale disinteresse dei sanitari nei suoi confronti.

Ma cosa si vuole punire degli psichiatrici? La loro pericolosità sociale, che nella maggioranza dei casi non esiste, o il loro umano e comprensibile desiderio di essere liberi?

Quello che è certo è che la contenzione viola un loro diritto costituzionale.

«Il problema della contenzione è che essa non solo non è ammessa, ma è direttamente vietata dalla Costituzione Italiana, segnatamente agli articoli 32.2 e 13.4. (…)».

Quindi, Cipriano si domanda se per l’uso dei dispositivi di contenzione possa essere fatta valere l’obiezione di coscienza e la risposta è che non è possibile, perché essa è già vietata, dunque ci si può solo rifiutare di procedere, giustificandosi con una norma del Codice Penale che consente di disapplicare un ordine del medico quando è illegittimo.

 

C’è una precisa ragione per la quale tutti noi, anche se ci riteniamo sani di mente, dobbiamo preoccuparci di ciò che accade a chi viene diagnosticata una malattia mentale.

«Gli psicofarmaci sono legali, non alimentano il crimine, vengono spacciati dagli psichiatri e dagli altri medici a loro insaputa (la grande maggioranza di essi non ha alcuna consapevolezza di essere usata dalle industrie del farmaco alla stregua di pusher autorizzati), e raggiungono una percentuale di persone che, di anno in anno, grazie ai manuali diagnostici, sarà sempre più elevata, perché sempre più numerose saranno le persone etichettate con diagnosi psichiatriche, fino a che si realizzerà davvero il Mondo Nuovo di Aldous Huxley: tutta l’umanità avrà un disturbo e sarà curata con un farmaco.»

 

Il manicomio chimico è stato scritto nel 2015 e a distanza di quasi un decennio, si può dire che in particolare uno degli argomenti trattati sia stato profetico.

«Io scommetto che, nel giro di qualche anno, questa tendenza interesserà pure i Paesi europei. Di solito dagli USA le mode ci arrivano sempre con una latenza di qualche anno.»

La profezia di Cipriano si riferisce al fatto che nel 2015 c’erano 4 milioni di bambini americani che assumevano anfetamine per l’ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, che oggi è popolare anche in Italia.

«Le radici dell’Attention Deficit Hyperactivity Disease risalgono al 1902, quando un pediatra inglese, George Frederick Still, pubblicò i casi di venti giovani di intelligenza normale ma con un comportamento violento. Still ipotizzò che potevano essere affetti da una “disfunzione cerebrale minima”. Ovviamente non l’aveva trovata (…), l’aveva solo ipotizzata. Allo stesso modo, nel 1947, il direttore di una scuola per ragazzi problematici definì gli studenti iperattivi “ragazzi con una lesione in un cervello normale”. Pure lui non poteva dimostrare nessuna lesione, l’aveva solo supposta. Nel 1937 Charles Bradley aveva sperimentato un’anfetamina, la benzedrina, per curare la cefalea dei bambini iperattivi. La cefalea rimane, ma loro si mostrano più calmi. Nel 1956 viene introdotto il metilfenidato (Ritalin), un’anfetamina per il trattamento della narcolessia. (…). Nel 1980, il DSM-III descrive il disturbo da deficit dell’attenzione (ADD); e nel 1987, nel DSM-III-R, questo disturbo diventa disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività (ADHD). Solo quattro anni dopo grazie a un’associazione di malati con ADHD, negli USA viene approvata la legge che consente a questi malati di avere un’assistenza, come il sostegno scolastico. Da allora, come prevedibile, sono state soprattutto le scuole, cioè gli insegnanti, a segnalare i bambini turbolenti (facile immaginare quanto può far comodo, in classi pollaio di venticinque alunni, avere il supporto di insegnanti di sostegno per bambini che disturbano). Cosicché nel giro di pochi anni questa diagnosi è lievitata (…).»

 

Cipriano aveva ragione.


Il sito dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) scrive sul suo sito web: «L’ADHD, è una patologia neuropsichiatrica con esordio in età evolutiva caratterizzata, dal punto di vista sintomatologico, dalla triade disattenzione, impulsività e iperattività motoria. Si distinguono tre presentazioni cliniche: con disattenzione predominante; con iperattività predominante e una forma combinata. L’eziologia dell’ADHD è multifattoriale e include fattori genetici e ambientali la cui interazione contribuisce alla genesi del disturbo».

Patologia neuropsichiatrica?

«La neuropsichiatria è la branca della medicina che ha a che fare con le attività neuropsichiche.

Essa è diventata una sottospecialità della psichiatria ed è anche strettamente legata al campo della neurologia comportamentale, che, a sua volta, è una sottospecialità della neurologia, la quale affronta i problemi clinici di cognizione e patologie del sistema nervoso centrale causati da lesioni cerebrali o da malattie del cervello.»

Ma se è vero com’è vero che non esistono prove circa lesioni che affliggono il sistema nervoso dei soggetti con ADHD, per quale motivo la patologia viene definita “neuropsichiatrica”, anziché “psichiatrica”? Semplice: per conferire autorevolezza alla diagnosi, che a sua volta serve per permettere ai medici di prescrivere gli psicofarmaci che avrebbero la presunzione di curare il paziente.

Sul sito dell’AIFA, se si clicca alla voce concept paper (che rappresenta la posizione preliminare dell’agenzia su argomenti di particolare rilievo) che riguarda il trattamento farmacologico dell’ADHD, appare la dicitura: «404 Pagina non trovata».

Tuttavia, è Cipriano a parlarci di ciò che accade fenomenicamente ai bambini che assumono Ritalin. «Gli iperattivi diventano più calmi, ma progressivamente (dato che, nel lungo termine, il sistema dopaminergico si autoregola e riduce la sintesi di dopamina) diventano troppo calmi, limitano le interazioni sociali, si isolano, vengono descritti come “piccoli zombie”. (…) Sul piano fisico si manifestano: sonnolenza, inappetenza, perdita di peso, cefalea e tic. Sul lato psichico: depressione, anedonia, apatia, abulia, disforia, ansia e, a livelli più gravi, ossessioni, deliri, allucinazioni ed euforia.»

Guardando sul lungo termine, i giovani iperattivi trattati con Ritalin, o i giovani depressi trattati con Prozac, appena hanno manifestato un episodio di psicosi, o di eccitamento dell’umore, sono stati diagnosticati come affetti dal disturbo bipolare, e da quel momento trattati con altri farmaci.

Insomma, un cane che si morde della coda. Le uniche a trarre giovamento da questa tragedia sono le aziende farmaceutiche.

 

Cipriano spiega che sono quattro le istituzioni americane che si sono occupate di rilanciare la psichiatria basata sui farmaci: l’American Psychiatric Association (APA), l’American Psychofarmaceutical Association, il National Institute of Mental Health (NIMH) e la National Alliance for Mentally Ill (NAMI) fondata da famigliari di pazienti con patologie psichiatriche.

«La santa alleanza in nome del farmaco era dunque costituita da questi quattro cavalieri. L’APA a garanzia dell’autorevolezza scientifica, le aziende farmaceutiche a garanzia del sostegno economico, il NIMH a garanzia del sostegno governativo, e la NAMI a garanzia etica (perché i familiari non sarebbero mai andati contro gli interessi dei loro cari, no?).»

 

Degli anni Ottanta le case farmaceutiche hanno cominciato ad assoldare eminenti opinion leader della psichiatria e medici che si prodighino a parlare al pubblico dei benefici delle nuove molecole, che si prefiggono lo scopo di curare il mal d’umore.

Inizia l’era della commercializzazione della depressione.

Vennero sintetizzate nuove molecole conosciute come Selective Serotonine Reputake Inibitor e «il Prozac sembrava sempre più il soma raccontato da Aldous Huxley in Mondo nuovo». È l’avvento della cosmesi farmacologica.

Il resto è attualità e basta guardarsi intorno per accorgersene.

 

Il manicomio chimico di Cipriano è un libro non solo utile a chiunque voglia approfondire l’argomento psicofarmaci, ma anche un testo divertente, brillante, scritto con quel genere di passione che si trova solo nella penna di autori profondamente coinvolti in questioni di interesse pubblico.

Sono molti gli aneddoti raccontati con delicata sfrontatezza; innumerevoli gli scorci di realtà che non sono lontani dal vissuto di molte persone e di altrettante famiglie; varie le critiche a quello che è un sistema che non ha cessato di esistere con l’approvazione della legge n.180, anche conosciuta come Legge Basaglia. Cipriano apre al lettore le porte su un mondo che attinge dalle sue esperienze, dai suoi vividissimi ricordi, dagli incontri con gli individui che ha curato, con i quali ha tentato di mettersi in contatto non solo come psichiatra, ma come uomo. Perché non si possono curare le menti se non ci si avvicina anche con il cuore, con l’empatia e con l’emotività, anche a costo di attirarsi le critiche dei colleghi e di portare su di sé il peso del cambiamento.

Cipriano parla di “dare fuoco alle fasce”, dell’inutilità della contenzione a tutti i costi e in qualsiasi caso, della difficoltà dei sanitari di emanciparsi dal sistema, pensando con le proprie teste.

È questa la parte che colpisce in maniera netta chi legge: l’esigenza dell’autore di comunicare che una rivoluzione non è solo possibile, ma necessaria, anche se i più sostengono che sia impossibile attuarla. Perché se la malattia mentale viene percepita come un mondo intelleggibile, il malato psichiatrico rimane una persona, al cui mondo ci si può accostare solo offrendo comprensione, fiducia e umanità. Il malato psichiatrico, per Cipriano, è ancora un essere umano, in tutto e per tutto uguale a lui e non vede distinzione, ma cerca di raccogliere il filo che lega tutta l’umanità.

E no, non si tratta delle romanticherie di un utopista, ma della profonda consapevolezza che risiede nella volontà di coloro i quali non vogliono abdicare alla ragione per paura.

La potenza del lavoro di Cipriano risiede proprio in quella bellezza ancestrale che unisce gli uomini dall’alba dei tempi: l’essere uno e una moltitudine in un solo abbraccio.

Accogliere il diverso vuol dire essere consci di poter accettare il dualismo “sano-malato”, “felice-infelice”, “stabile-instabile” che alberga in ognuno di noi. È solo allora che smetteremo di avere paura, perché riconosceremo l’altro come parte di ciò che siamo e potremo coltivare la determinazione a trovare soluzioni meno immediate di una pillola, ma certamente più magiche delle sterili promesse di una formula chimica.

 

INTERVISTA

 

Ho apprezzato il tuo libro come non mi capitava di fare da tempo. Due cose su tutte mi hanno piacevolmente stupita: la prosa tagliente e a tratti dissacrante, e il focus sul malato psichiatrico.

E tu dirai: «Beh, su chi altro mi sarei dovuto concentrare?», ed io ti risponderei: «In un mondo che pare sopraffatto da narcisismi ed egocentrismi di ogni sorta, nel quale le persone sono più interessate a come sopravvivere ai problemi che creano i malati psichiatrici e a cosa farne di loro, tu ti concentri sull’unica cosa che conta davvero: il mondo interiore del soggetto interessato».

Questa, dottore, è una cosa che sono rimasti in pochi a fare. L’altro è spesso visto solo come un problema da risolvere, o ancora meglio, da evitare.

 

D. Spesso mi capita di pensare che il tentativo degli influencer “attivisti” di normalizzare la malattia mentale possa essere un’arma a doppio taglio molto pericolosa. Sono in tantissimi, oggi, a scrivere sulla propria biografia di Instagram: “affetto da ADHD”. Nel tuo testo, spieghi che il problema parte proprio dalla diagnosi, che viene sempre più spesso usata come uno strumento non in aiuto del paziente, ma dell’industria farmaceutica. Perché quest’onda sembra montare sempre più irruenta?


R. La mia ipotesi è che a partire dagli anni Ottanta ci sia stata una ridefinizione di quello che consideriamo il manicomio: vale a dire, non più il manicomio concentrazionale fatto di muri, ma un manicomio molto più sofisticato che nessuno vede, fatto non solo da psicofarmaci, ma anche di etichette diagnostiche. Quest’operazione è stata particolarmente brillante; ci si sono impegnati, da una parte, l’American Psychiatric Association, in una partnership inquietante con Big Pharma, e dall’altra il National Institute of Mental Health, l’organo governativo di ricerca americano. Insieme hanno provato a portare al mondo una nuova narrazione: il cervello dei malati psichici è “rotto” e può essere aggiustato solo con gli psicofarmaci. Negli anni Novanta, infatti, c’è stata la propaganda dei farmaci stellari come Prozac e così via. Però, per poter convincere l’umanità ad assumere psicofarmaci non risolutivi, molto spesso per anni (se non per tutta la vita), bisognava persuadere le persone del fatto che queste sindromi psichiatriche fossero malattie vere e proprie. Di qui, l’uso pervasivo dei manuali diagnostici americani, che hanno moltiplicato, di edizione in edizione il numero di entità diagnostiche; nel 1952 erano 106, nel 2013 erano arrivate a 370: si sono quadruplicate; ma non sono solamente di più, sono a maglie più strette, cioè comprendono condizioni che un tempo avremmo considerato fisiologiche e che oggi vengono considerate patologiche. Ad esempio, il lutto: i tempi del lutto si ridimensionano sempre più e, quindi, sempre più facilmente il lutto diventa, secondo i manuali, depressione; l’eccessiva vivacità diventa ADHD; la timidezza viene ridefinita “fobia sociale” e via dicendo, in questa dinamica che chiamiamo Disease mongering, ovvero l’invenzione di malattie per vendere farmaci. A questo hanno abboccato, come dicevi, gli influencer, le persone, i ragazzi che si definiscono sulla base della propria entità diagnostica: «Io sono bipolare», «Io sono borderline»… E questo consente di avere degli alibi, delle legittimazioni rispetto ad eventuali fallimenti ed insuccessi. Ci si ripara, in sostanza, dietro l’etichetta diagnostica, tanto ce n’è una per ogni condizione.

 

D. È mia convinzione che le società improntate al capitalismo siano il principale responsabile dei più disparati disagi mentali che affliggono sempre più persone. Nell’uso spropositato e dilagante di psicofarmaci c’è, effettivamente, una mano invisibile che offre una facile soluzione che, a lungo andare, non fa altro che aggravare il problema. Allora ti chiedo: i metodi alternativi, come ad esempio la meditazione, riusciranno a trovare spazio in quella che sembra una vera e propria dittatura farmacologica?

 

R. Questa psichiatria è assolutamente figlia del capitalismo. Big Pharma, capitalismo e psichiatria sono sotto lo stesso ombrello. Questo è il primo dato. Per cui, se noi terapeuti vogliamo sottrarci dalla dittatura dello psicofarmaco – inteso come terapia a senso unico – abbiamo tutta una serie di altre possibilità. Ad esempio, qualche hanno fa io stesso suggerivo ad ansiosi e depressi di andare a correre. Nel Regno Unito i medici, per i sintomi di depressione lieve, prescrivono appunto la corsa. In seguito mi sono interessato di altre terapie alterative, come quelle psichedeliche, che sono state possibili per un ventennio (negli anni Cinquanta e Sessanta) e poi, essendo farmaci che espandono la coscienza (a differenza degli psicofarmaci che tendono, invece, a “chiuderla”) sono state messe fuori legge e criminalizzate. Negli ultimi anni stiamo assistendo al cosiddetto “rinascimento psichedelico”, cioè stanno tornando gli studi rispetto a queste terapie, di cui anche io mi sto occupando e che mi auspico possano tornare alla ribalta. (NdR Cipriano si riferisce al suo libro Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia - Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, edito da Luca Sossella Editore nel 2023). Accanto a queste possiamo immaginarne altre: camminata, yoga, dimagrimento, digiuno, funghi medicinali non psichedelici, cannabis medica. Quest’ultima è stata la prima ad essere criminalizzata dalla scienza e dalla psichiatria, in realtà ha moltissime virtù terapeutiche, quindi, con la prescrizione di un medico, può essere usata per contrastare ansia, disturbi dell’umore, insonnia… Insomma, esiste la possibilità per uno psichiatra, non pigro e non prono, di suggerire altre terapie. Bisogna solo volerlo fare.


D. Perché per le persone è così difficile accettare che l’esistenza di ognuno di noi è fatta anche di disagi emotivi profondi e che essi sono parte integrante del ciclo della vita? Perché tendiamo a classificare tutto ciò che è turbativo come qualcosa da contrastare, anziché accoglierlo con consapevolezza e la giusta dose di indulgenza verso noi stessi e gli altri? Ha a che fare con lo spasmodico desiderio di essere performativi e, quindi, socialmente accettati?

 

R. Direi di sì. Negli ultimi decenni ci siamo avviati verso una società che ha bisogno di essere performante e prestazionale. L’antesignano dell’uso cosmetico degli psicofarmaci, per essere più agguerriti nella vita, fu Peter Kramer, che nel 1993 scrisse Listening to Prozac, nel quale diceva che il Prozac non è solo un farmaco da somministrare a chi è depresso, ma anche a chi è “normale” per migliorare la personalità: esattamente come il trucco migliora il volto e la palestra il corpo. Il Prozac ti rende più performante e, quindi, in linea con la società della prestazione in cui viviamo oggi. Il filosofo Byung-Chul Han la chiama “società della stanchezza”, proprio perché essa è vittima di un sistema che conduce l’individuo al burnout, una sorta di stanchezza esistenziale che gli psichiatri facilmente inquadrano come depressione. Quindi, ecco che lo psichiatra è lì, pronto a risolvere il problema con i farmaci; un problema che non è una vera e propria depressione, ma che nasce da altro. Una volta le depressioni erano rare, oggi grazie ai manuali diagnostici sembrano sempre più diffuse; inoltre, come spiego nel mio libro, l’assunzione di psicofarmaci altera il quadro diagnostico degli individui.

 


D. La cosa che più mi ha turbato leggere nel tuo libro è il fatto che la maggior parte dei tuoi colleghi psichiatri non desideri essere lungimirante, ma si limiti a prescrivere farmaci per tenere a bada il paziente. Credo che quando si parla di scienza della mente si debba tenere una porta spalancata sull’evoluzione degli approcci e delle terapie, altrimenti, tanto valeva rimanere a “le donne sono nevrotiche perché hanno l’utero”. Sei d’accordo?


R. Gli psichiatri sono una pessima categoria di cui, aimè, io faccio parte, perché storicamente si sono sempre prestati ad essere il braccio scientifico del potere. La psichiatria nasce a fine Settecento insieme al manicomio con l’intento, come dice Foucault, di proteggere la società dal pericolo e dal disordine del folle.  Dunque, nasce il manicomio come luogo di internamento e di espulsione della persona “diversa” dal contesto sociale. E chi si è prestato a fare questa cosa sono proprio gli psichiatri; sono pochissimi quelli che, come Basaglia, hanno dissentito (negli anni Sessanta e Settanta). I manicomi, grazie a quella minoranza di psichiatri, sono stati eliminati e negli anni Ottanta c’è stata una ridefinizione dell’istituzione “manicomio” sotto altre vesti e chi si è prestato a tutto ciò sono un’altra volta gli psichiatri, che non sono mai stati coraggiosi e rivoluzionari, ma neppure critici o radicali; sono sempre stati proni a quello che veniva calato dall’alto: potere, repressione… Basti pensare che in alcune nazioni c’è stata una psichiatria per eliminare dalla scena i dissidenti politici, come quella sovietica del Novecento, in cui l’URSS diagnosticava la “schizofrenia torpida”, attribuita ai dissidenti politici, gli unici che potevano pensare di dissentire dalla grande madre sovietica. Oggi gli psichiatri, usando modalità molto più sofisticate e apparentemente scientifiche di controllo sociale, si prestano, ancora una volta, a questo tipo di operazioni. Sono pochissimi coloro i quali cercano di dissentire, di levare una voce diversa, di contestare, appunto, l’eccesso diagnostico e la pioggia di psicofarmaci.

 

D. Il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, quindi ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo il tuo lavoro potrebbe cambiarla in meglio.


R. Ovviamente sono moltissime le cose che non mi piacciono, ma per restare nel contesto: del mondo di oggi non mi piace affatto la psichiatria. Così come Basaglia nel 1964 osò dire che la distruzione del manicomio era un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio, io auspico un forte cambiamento della psichiatria, se non addirittura il suo smantellamento. L’uscita di scena di questa scienza violenta, repressiva e custodialistica, se è così che deve continuare ad essere. Fino ad ora ho sempre ricusato di definirmi “antipsichiatra”, ma negli ultimi tempi penso di potermi riappropriare anche di questa auto etichetta. Il mio lavoro di scrittura potrebbe cambiare in meglio la situazione perché mira a decostruire il sapere psichiatrico e a proporre terapie differenti. Dal punto di vista pratico, lo faccio continuando a lavorare nei luoghi che contesto – come suggeriva di fare Franco Basaglia, che diceva: «Dobbiamo infiltrare gli infiltrati», vale a dire che se gli psichiatri si sono infiltrati in luoghi di cura trasformandoli in luoghi di non cura, allora noi dobbiamo infiltrarci come elemento di dissenso, come un osservatore interno, qualcuno che suggerisca alla maggioranza degli psichiatri di agire diversamente da come fanno.

 


La ricetta ruandese per la depressione: sole, tamburo, danza e comunità


«Abbiamo avuto molti problemi con gli operatori occidentali della salute mentale che sono venuti qui subito dopo il genocidio e abbiamo dovuto chiedere ad alcuni di loro di andarsene. Sono arrivati e la loro pratica non implicava lo stare fuori al sole, dove inizi a sentirti meglio; non c’era musica o tamburi per farti scorrere di nuovo il sangue; non aveva senso per loro che tutti si prendessero un giorno libero in modo che l’intera comunità potesse riunirsi per cercare di sollevarti e ricondurti alla gioia di vivere; non c’era alcun riconoscimento della depressione come qualcosa di invasivo ed esterno che potesse effettivamente essere scacciato di nuovo. Invece, portavano le persone una alla volta in queste piccole stanze squallide e le facevano sedere per un’ora a parlare delle cose brutte che erano successe loro. Abbiamo dovuto chiedergli di andarsene.»

(Un ruandese parla con lo scrittore occidentale Andrew Solomon della sua esperienza con la salute mentale occidentale. Dal podcast “The Moth”).


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