top of page

iscriviti

Riceverai un aggiornamento quando viene pubblicato un nuovo articolo

INVIATO!

Cerca
Immagine del redattoreAlice Rondelli

INTERVISTA - Graffitiing set you free


Breve viaggio nella storia della street art italiana e conversazione con Gep Caserta, calligrafo e graffittaro milanese.

Giuseppe Caserta, in arte GEP, è un artista e calligrafo nato a Rho, in provincia di Milano, nel 1974. Qui, nei primi anni Novanta, fonda il gruppo rap ENMICASA insieme a Dj Zago, Macs, Medda (Salvatore Camedda) e Tave.  Nel 1997 il gruppo, sotto lo pseudonimo di Produzioni Oblio, cura l’organizzazione della compilation Area di Contagio, che contiene brani di dieci gruppi della scena underground italiana, tra questi vi sono gli stessi ENMICASA con il brano “Il Buio”, il primo ufficiale della formazione.  Gli ENMICASA (distribuiti da Universal Music) hanno partecipato alla colonna sonora di Fast & Furious 4 con il brano Street code, un featuring con B-Real, front man dei Cypress Hill.

Da ragazzo, GEP frequenta l’istituto tecnico d’arte applicata all’industria con indirizzo grafica pubblicitaria, e si appassiona in particolar modo ai graffiti.

 

Come spiega Alessia Logatto nella sua tesi di laurea: «Il termine “graffiti” viene impiegato solitamente per designare atti e scritte non autorizzate realizzate su superfici di proprietà altrui, sia pubblica che privata. Per quanto riguarda invece la denominazione Graffiti Writing, essa descrive il linguaggio espressivo nato nel tessuto urbano statunitense tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Originariamente alcuni ragazzi (…) lasciavano una testimonianza del proprio passaggio sulle pareti di edifici e luoghi dismessi, situati nei quartieri periferici delle grandi città e all’interno degli spazi della metropolitana newyorkese, tracciando le cosiddette tag: firme identificative realizzate tramite il disegno di simboli e lettere».

 

Un testo importante che riguarda l’argomento è “Arte di frontiera” e nasce da un progetto del 1984 di Francesca Alinovi (critica d’arte e performer), ricercatrice presso il DAMS di Bologna, che fu la prima in Europa a studiare in modo sistematico il graffitismo e la street art sorta da esso. «Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Alinovi si è recata negli Stati Uniti per esaminare le svariate manifestazioni scaturite da quella realtà di cui tanto si dibatteva oltreoceano e di cui così poco si conosceva in Italia, giungendo all’elaborazione e all’adozione dell’espressione “arte di frontiera”, comparsa per la primissima volta all’interno di un articolo pubblicato nel febbraio del 1982 per il numero 107 della rivista “Flash art”. Tale dicitura descriveva l’avvento di una nuova modalità espressiva, un’arte riconosciuta sia d’avanguardia che mediana ed interlocutoria, a metà tra l’arte e l’illustrazione, il quadro e il graffito, lo spontaneismo e la citazione dotta, la sensibilità occidentale e quella terzomondista, nonché intermedia tra cultura e non cultura, tra artisti che non erano integrati né con l’arte, né tantomeno con la società.»

 

«Per quanto riguarda la diffusione e l’evoluzione del fenomeno dell’arte di strada sul suolo italiano, è necessario citare Carlo Torrighelli (1909-1983) considerato una sorta di “graffitaro antelitteram” degli anni Settanta. Torrighelli era membro della Resistenza italiana, nonché attivo partecipante del Partito Comunista che, dopo essersi trasferito a Milano al termine del secondo conflitto mondiale, ha iniziato a tracciare e scrivere, con l’ausilio della vernice bianca, alcune frasi sul tessuto urbano milanese. Si trattava essenzialmente di slogan, firmati per mezzo della sigla “C.T.”, accusatori e canzonatori nei riguardi delle istituzioni religiose e politiche. Il suo operato si inserisce all’interno di un decennio storico italiano, ovvero quello degli anni Settanta, in cui il termine “graffito” viene utilizzato principalmente per descrivere le svariate scritte di carattere politico che si possono incontrare sulla trama urbana delle città. Durante questo periodo nascono diversi movimenti politico-sociali che sfruttano strumenti come le bombolette spray, i pennelli e le mascherine, (traduzione italiana degli stencil) al fine di tracciare termini ed espressioni strategicamente contestatori, specialmente in occasione di manifestazioni e cortei. I meccanismi propri del fenomeno in questione vengono sfruttati anche durante diverse rivoluzioni culturali, come per esempio le contestazioni studentesche insorte a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. Tra i più giovani emerge l’insoddisfazione e la disillusione nei confronti della società e della politica, condizione che porta i soggetti coinvolti a ricercare una modalità significativa in grado di esprimere il proprio dissenso. In città come Bologna, Milano, Torino e Roma la rabbia, il disincanto e la volontà di rompere con i dogmi imposti dalla società confluiscono verso quel linguaggio espressivo e creativo che predilige il mezzo del tessuto urbano, il quale diviene il luogo prediletto nel quale manifestare e imprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni».

Per quanto riguarda gli strumenti, sappiamo che «lo stencil, la tag, il poster e anche le semplici scritte nere, vengono ampiamente sfruttati dalla street culture dell’Hip hop, a cui si avvicinano in particolar modo le nuove generazioni, le quali provengono da una fase caratterizzata da rivolte

culturali e studentesche e che pertanto sentono la necessità di appartenere ad un gruppo in cui identificarsi e riconoscersi.»

 

«Il momento cruciale per la divulgazione e la conoscenza della pratica artistica del Graffiti Writing in suolo italiano risale tradizionalmente all’inaugurazione dell’esposizione “Arte di Frontiera. New York Graffiti”, che ha avuto luogo nel marzo del 1984 presso il Museo di Arte Moderna di Bologna e che ha visto la partecipazione di svariati writer di fama internazionale. Il progetto in questione è stato costruito» come già detto «da un’idea di Francesca Alinovi; ma, a seguito della sua tragica scomparsa nel 1983, viene portato a termine da due suoi collaboratori, Roberto Daolio e Marilena Pasquali».

 

«Il graffitismo (…) rientra all’interno delle quattro discipline in cui si articola la cultura Hip hop: MCing, o rapping, il DJing, il Bboying, appellato anche come breaking, e il writing, ossia il graffitismo. I giovani che si affacciano al panorama della street culture sono chiamati a confrontarsi con tutti i suddetti ambiti e a emergere in almeno uno di loro, in modo da poter entrare a far parte di una o più crew. Inizialmente sul suolo italiano l’interesse principale è quello di (…) produrre musica rap, solamente in seguito si inizia a praticare e sperimentare più assiduamente la disciplina del writing.»

 

«Secondo i teorici e gli studiosi del graffitismo italiano, Milano è un polo essenziale per la

diffusione della street culture; infatti, viene tutt’oggi segnalata come uno dei primi centri urbani d’Italia ad aver esplorato e praticato il Graffiti Writing a partire dagli anni Ottanta. Milano si è sempre dimostrata una florida metropoli culturale, ricolma di luoghi espositivi, nonché ricca di attori e personalità di particolare rilevanza che, tramite i loro legami internazionali, hanno importato sul suolo nazionale nuovi e prorompenti fenomeni, sia artistici che culturali, provenienti dai paesi esteri.»

 

«Nel 1991 Marco Mantovani (in arte KayOn) costituisce, con Airne e Adstar, la prima fanzine italiana» una pubblicazione non professionale e non ufficiale «dedicata al graffitismo, chiamata Hip Hop Tribe Magazine, ritenuta dagli studiosi un importante mezzo di diffusione del fenomeno, dal momento che esterna la voce dei writer dell’epoca, ma specialmente poiché rende possibile la visione di una considerevole quantità di graffiti, sia italiani che esteri, grazie a fotografie e fotocopie provenienti da alcuni volumi tematici, oltre che di copertine di riviste e di album realizzate dai pionieri americani.»

 

«Durante i primissimi anni Duemila, al di sopra del tessuto urbano italiano si possono incontrare graffiti, tag ed altre modalità espressive, le quali si avvalgono di tecniche inedite ma al tempo stesso già sfruttate da altri movimenti sociali e politici. Si tratta di stencil, poster, adesivi e murales di ingenti dimensioni e ricchi di figurazioni cromatiche, che ricoprono le pareti di edifici abbandonati e dismessi, di luoghi occupati e contingenti al percorso autostradale. La sostanziale differenza che intercorre tra le personalità che agiscono durante gli anni Novanta e i protagonisti del nuovo decennio è data dal fatto che questi ultimi possiedono un approfondito background accademico e artistico.»

 

 Per approfondire il tema:


 


INTERVISTA

(la versione completa è disponibile sul podcast)


 

D. Mi è capitato spesso di notare che la gente che fa arte sembra essere “senza tempo”, come se quel “vissi d’arte, vissi d’amore” di Puccini si incarnasse. Dunque, ti chiedo quanti anni hai e che storia d’amore è la tua con il tuo mestiere.

 

R. (ride) La domanda mi fa sorridere perché è vero che chi fa arte è un po’ senza tempo. Ho quarantanove anni, vado per i cinquanta: un traguardo importante. Non so se li dimostro, ma quando tengo i miei laboratori nelle scuole, i ragazzini mi dicono che sembro molto più giovane dei loro genitori. Forse è l’arte che mi tiene giovane! Il mio amore per l’arte credo di doverlo al fatto che, quando avevo undici anni, mio padre acquistò un piccolo colorificio, in cui bazzicavo spesso: quindi, si può dire che io sia cresciuto tra i colori. Quello è stato il mio primo approccio con tele, pennelli e soprattutto con le bombolette spray, che rubavo dal negozio in grandi quantità per andare a fare disastri in giro! E poi c’è stata la scuola: ho fatto il liceo artistico, pur non avendo portato a termine gli studi; successivamente, ho frequentato le serali della scuola del Castello Sforzesco di Milano con indirizzo grafico, mentre di giorno lavoravo con mio padre in bottega. Il mio primissimo amore sono stati i graffiti. Sono nato come writer alla fine degli anni Ottanta. I miei lavori iniziali erano davvero brutti!

 

 

D. Hai cominciato a Rho, in provincia di Milano, con la tua crew – ENMICASA – e hai scelto in qualche modo di rimanere nei paraggi. A me la realtà di provincia piace: c’è qualcosa di potente nello sperimentare la vita in giro, per poi scegliere di ridare qualcosa alle proprie origini. È così anche per te?

 

R. Nascere in una piccola realtà cittadina mi ha dato la spinta per uscire da una certa mentalità provinciale. Crescendo, però, mi sono reso conto che non si sta così male defilati dal caos della grande metropoli; anche se, ovviamente, quando si è giovani il casino piace: i locali, le serate, i concerti… cose che ho vissuto intensamente, essendo stato tra i fondatori del gruppo hip-hop EMICASA; prima ancora facevo parte di un’altra crew che si chiamava RCP, che sta per Rho Criminal Posse. Alla fine ho deciso di rimanere qui, anche se credo che con la propria città di origine ci sia sempre una sorta di rapporto amore-odio… Nel frattempo ho avuto tre figli e ho cercato di trovare il mio equilibrio dov’ero anche se, effettivamente, Rho continua a non avere molto da offrire. Questa stabilità, però, mi dà la forza di andare a Milano e far vedere che anche in provincia si possono trovare tanti artisti che spaccano il culo! (ride)

 

 

D. Come è stata, fino ad ora, la tua esperienza nel mondo del lavoro? Quanta libbra di sacrificio si stacca dalla carne per metterla sulla bilancia, quando sull’altro piatto c’è la propria passione?

 

R. In Italia è molto complesso essere un artista che cerca di mantenersi con il proprio mestiere… Bisogna confrontarsi tutti i giorni con le bollette da pagare, di conseguenza si deve riuscire a trovare il modo di commercializzare la propria arte. L’inizio è sempre votato a trovare una quadra. Nel mio caso, la svolta è arrivata con la calligrafia: ha cambiato completamente il mio approccio all’arte e al lavoro. Gli alti e bassi economici restano, e gli anni di pandemia hanno complicato le cose, ma per fortuna sono bravo a reinventarmi e ad arrangiarmi, come ho dovuto fare fin da piccolo per via di varie vicissitudini. Sono le difficoltà a darci la forza di creare cose nuove, cose che poi devi essere capace di vendere! (ride) Io con il tempo ho imparato a farlo. La vita dell’artista, non quello della domenica ma quello h24, è difficile: è la continua ricerca di quel tipo di affermazione che ti consente di avere un flusso di lavoro più o meno continuo.

 


D. Parlami dei tuoi work shop con i bambini. Tu sei un artigiano della calligrafia, quindi credo che per prima cosa puoi insegnare loro a creare il proprio sogno con le loro stesse mani ed è un dono che non ha prezzo.

 

R. Ormai sono diversi anni che tengo laboratori con bambini e adulti. Posso dire che lavorare all’interno delle scuole con i più piccoli è davvero una soddisfazione, perché sono molto ricettivi agli stimoli e sanno ricambiare il mio impegno in maniera fantastica! È bellissimo iniziarli alla calligrafia e all’uso di strumenti per loro – e spesso anche per gli insegnanti – sconosciuti, come i calami artigianali in bambù prodotti da me, la china, le bombolette spray… Fargli fare un’esperienza nuova in modo nuovo, specialmente in un’era iper digitalizzata come la nostra, è qualcosa di prezioso. Anche io uso il digitale, ma prima c’è sempre la fase artigianale ed è quella che, secondo me, oggi manca ai bambini. È importante dimostrare loro che possono usare altri strumenti nella quotidianità, oltre a quelli digitali. La bomboletta, poi, riesce ad entusiasmare chiunque!

 


D. Visto che il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo il tuo mestiere potrebbe cambiarla in meglio.

 

R. Sicuramente, quello che meno mi piace è il “tutto e subito” a cui ci siamo abituati. Milioni di immagini e video ci scorrono sotto gli occhi in ogni momento della giornata attraverso lo schermo di uno smartphone, tanto che non riusciamo più a concentrarci su niente: non ci interessa. Invece è importante fare attenzione a quello che accade e a quello che vediamo, altrimenti si finisce per dare importanza solamente al “fare”. In questo caso mi riferisco al pubblicare contenuti sui social: se non lo fai, non esisti. Non è così, e la calligrafia ti insegna a rallentare i tempi: ti insegna a vivere il momento presente, un presente in cui tu ci sei davvero. Nel mio piccolo cerco di trasmettere l’importanza di dedicare del tempo a ciò che si fa. Fondamentalmente, insegno ad andare controcorrente.

 

Dall’8 al 22 dicembre 2023, presso Villa Burba a Rho, si svolge la mostra “Lettera Astratta” di GEP, che comprende un workshop di calligrafia dedicato ai bambini e uno rivolto agli adulti.











Contribuisci all'indipendenza di (F)ATTUALE


Comments


bottom of page