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Immagine del redattoreAlice Rondelli

INTERVISTA - ArteActiva

Viaggio nella storia della stancil art e conversazione con gli street artist italiani Evyrein e Tutto e Niente.
Uno statement sulla situazione a Gaza di John Frekner, pioniere nell'utilizzo dello stancil all'aperto sulla scena underground newyorkese alla fine degli anni Settanta e il progetto UNMUTE GAZA.

«L’arte non può essere moderata. L’arte deve essere esagerata!» ha detto lo scultore e pittore polacco Stanisław Szukalski.

 

Il filosofo Paolo Costa scrive che il termine “vita activa” (che è anche il titolo di un libro di Hannah Arendt) è antico quanto la nostra tradizione occidentale del pensiero politico; nella filosofia medievale è la traduzione corrente dell’aristotelico bios politikos, che già ricorre in Agostino, dove riflette ancora il suo significato originale: una vita dedicata alle questioni pubblico-politiche. Aristotele distinse tre modi di vita che gli uomini potrebbero scegliere in libertà, cioè in piena indipendenza dalle necessità della vita e dalle relazioni da essa originate. Questo prerequisito della libertà escludeva tutti i modi di vita principalmente dediti alla conservazione della stessa – non solo il lavoro, che definiva l’esistenza dello schiavo, del tutto condizionato dalla necessità di sopravvivere e dal dominio del padrone, ma anche l’operare del libero artigiano e l’attività acquisitiva del mercante. In breve, esso escludeva chiunque, involontariamente o volontariamente, per tutta la vita o temporaneamente, avesse perduto la libera facoltà di disporre dei suoi movimenti e delle sue attività. Con la scomparsa dell’antica città-stato – sant’Agostino era forse l’ultimo a sapere almeno cosa significasse un tempo essere un cittadino – il termine “vita activa” perdette il suo significato specificamente politico e indicò ogni genere di partecipazione attiva alle cose di questo mondo. L’azione veniva annoverata tra le necessità della vita terrena, cosicché rimaneva la contemplazione , la “vita contemplativa”, come solo modo di vita veramente libero.

 

Il metodo di pittura con stencil è presente nel mondo della street art fin da quando questa tecnica è emersa negli anni Settanta nelle metropoli europee e statunitensi. Grazie al metodo unico di realizzazione dello stencil, lo stesso pezzo può essere riprodotto più e più volte, e ciò rende i graffiti con stencil il metodo di etichettatura più efficiente dal punto di vista della rapidità che della pulizia, consentendo al professionista di stabilire una connessione immediata con il pubblico.

Oltre a contrassegnare gli edifici e le attrezzature con stencil, durante la seconda guerra mondiale i soldati americani spesso etichettavano i loro carri armati e l’artiglieria con motivi di angeli o teschi, il tutto con l’obiettivo di spaventare il nemico e sollevare il morale. Dopo la fine conflitto, gli stencil rimasero lo strumento più efficiente di organizzazione sul posto all’interno dell’esercito, ma divennero anche un metodo popolare tra i civili per sfidare le istituzioni politiche e rivendicare il diritto al cambiamento. Gli anni Sessanta videro l’avvento negli Stati di disordini sociali ad opera delle classi più povere, che originarono movimenti anti-establishment diretti da gruppi punk rock come Black Flag e Crass. Nel tentativo di autopromuovere le loro canzoni e allo stesso tempo di mostrare le loro opinioni antigovernative, queste band coprirono i loro locali punk con gli stencil, presentando i loro loghi e nomi, testi e loghi. Spesso utilizzato come riferimento per il vero inizio artistico di questo mezzo è l’anno 1968, quando John Fekner collocò la sua opera all’aperto per la prima volta. Fekner ha lavorato nella Grande Mela e i suoi graffiti sono diventati da un giorno all’altro un importante segmento della cultura underground; John è stato l’unico dei suoi colleghi artisti urbani a utilizzare lo stencil e il pubblico non aveva mai visto nulla di simile prima che lui iniziasse a lavorare con questo metodo. Parallelamente il francese Ernest Pignon-Ernest ha lavorato alla sua personale interpretazione del mezzo: la sua silhouette stampata di una vittima di una bomba nucleare è stata dipinta con spray nel 1966, in una città di Vaucluse. Tuttavia, oltre a John Fekner ed Ernest Pignon-Ernest, la stancil art ha dovuto attendere fino agli anni Ottanta per vedere l’alba di una diffusione capillare in tutto il mondo.

Blek le Rat ha spruzzato i suoi primi pezzi nel 1981, posizionandoli in giro per Parigi e ha imparato molto sulla sua pratica studiando belle arti e architettura presso la prestigiosa École Des Beaux Arts di Parigi. Fortemente influenzato dalla scena della street art di New York, Blek desiderava creare qualcosa che lo distinguesse dal resto dei pittori urbani e stabilisse la sua reputazione come uno dei principali autori di graffiti; così, ha iniziato a realizzare stencil di ratti, distribuendo i suoi pezzi nella Ville Lumière. L’utilizzo di poster e immagini pre-stencil ha permesso che l’applicazione della vernice fosse molto più rapida, il che si è rivelato utile poiché all’epoca le attività di Rat erano illegali. “RAT” è l’anagramma di “ART” e i ratti simboleggiavano sia la libertà che la diffusione dell’arte in città come un’invasione.

Il fotografo australiano Rennie Ellis ha documentato alcuni dei primi esempi di stencil art (per lo più realizzati da artisti anonimi) apparsi a Sydney e Melbourne, archiviandoli in modo eccellente in un libro del 1985: The All New Australian Graffiti. Attraverso la sua corrispondenza con il fotografo americano Charles Gatewood , Ellis giunse alla conclusione che la scena degli stencil australiana non assomigliassero affatto a quella presente negli Stati Uniti: la differenza consisteva nel fatto che quei graffiti in stile metropolitano non erano altro che la copia della tradizione consolidatasi a New York.

In seguito sono arrivati: Banksy a Bristol (che fa affidamento all’umorismo nero per veicolare messaggi come l’antimilitarismo e la pericolosità del capitalismo); Dolk in Norvegia (il primo ad entrare nel mondo delle mostre nel 2006, da quando ha esposto con successo i suoi graffiti in alcune gallerie); Pøbel a Stavanger (che crea gag con interessanti colpi di scena e contesti umoristici); Evol in Germania (conosciuto per la combinazione di incollare carta, stencil e pittura); Icy e Sot (nati rispettivamente nel 1985 e nel 1991 in Iran, che affrontano problemi riguardanti i diritti umani e la giustizia ecologica); Boxi con sede a Berlino (noto anche per le sue opere multistrato a grandezza naturale); Sten e Lex (nati entrambi nel 1982, realizzano stencil dal 2000 e sono considerati i pionieri della stancil art italiana); Alias a Berlino (che indaga il modo in cui i bambini e gli adolescenti vengono influenzati dagli ambienti ingiusti e difficili in cui crescono).

 

 

Evyrein (pseudonimo omaggio all’omonimo videogioco) è un urban street artist originario di Schio (Vicenza), classe 1981. Pur gravitando nel mondo dei graffiti da sempre, è durante il lockdown che ha cominciato a far uscire i suoi lavori dalla porta di casa. La bio della sua pagina Instagram lo racconta con poche, semplici parole: «UNAUTHORIZED StreetArt - NO private commission». Sono in pochissimi a conoscere la sua vera identità e i giornali lo etichettano come «il Banksy veneto», ma è una semplificazione ingrata, perché Evyrein non utilizza solo la tecnica dello stencil. Ad esempio, l’istallazione a muro intitolata “LGBT” è composta da due mani di gesso con le unghie smaltate: una regge un mazzo di fiori di campo e l’altra mostra ai passanti il dito medio; un commentatore l’ha definita: «bassorilievo o mezza-scultura», sottolineando come l’opera rompa non sono l’intonaco, ma anche gli schemi. Talvolta, l’autore sbriciola sulla strada in prossimità delle sue opere elementi che richiamano l’attenzione dei passanti: pistilli di mimosa nel pezzo “Only God can Judge me” e banconote false per “Whatever it takes” (che vede Mario Draghi nei panni di un bandito impegnato a trascinare un pesante sacco ricolmo di denaro). I temi trattati sono molteplici: in “Saint Anthony” il santo patrono di Padova regge tra le braccia un bambino e una grossa siringa dell’azienda farmaceutica Pfizer, facendo il paio con il pezzo intitolato “L’ottava dose” che vede una coronata Vanna Marchi brandire siero e siringa; “School Kills Creativity”, opera in cui un’irriverente Leonardo Da Vinci – che appare con appuntata al cappello una spilla raffigurante la sua Monna Lisa – mostra al fruitore il dito medio tatuato; in “The slap” Putin e Zelenski si recano, elegantissimi, a ritirare il premio Oscar come migliori attori. Il tema della violenza traslata in premure ricorre di frequente, come nello stancil “Flowers Banger”, nel quale quello che sembra un ladro appostato dietro un muro, in attesa della sua vittima, brandisce un mazzo di rose e in “War is NOT over” (del novembre 2023), che vede due giovani Yoko e John reggere un cartello che accusa il governo di non desiderare affatto la fine della guerra. Non viene risparmiata neppure l’attuale presidente del consiglio Giorgia Meloni, che stringe la mano del boss mafioso Matteo Messina Denaro; né tantomeno la categoria degli influencer con l’ultimo, diventato celebre: “Il malinteso”, che vede Chiara Ferragni passeggiare divertita con il marito accanto e una confezione di pandoro al posto della borsetta. La chicca per intenditori: l’influencer cremonese indossa in paio di pantaloncini che richiamano la divisa del mitico Alex DeLarge, il protagonista del film Arancia Meccanica.








 


Tutto e Niente è uno street artist palermitano che mixa stancil e graffiti. Sul suo sito web si legge che: «nasce tra le strade e i vicoli del centro storico di Palermo con l’obiettivo di portare l’arte e l’interazione diretta con le persone e con gli abitanti dei vicoli e delle strade, regalando opere che durante la loro esecuzione vengono spesso spiegate a chi si ritrova di passaggio (…), motivando così l’azione creativa e la necessità di agire. (…) Gli spazi pubblici, spesso degradati, sono luoghi per eccellenza e non luoghi (…), sono l’unico ventre in cui tutto questo può completarsi e riempirsi di significato senza un secondo fine, così l’azione acquista unicità e purezza. Le azioni, periodiche e spontanee, nascono dal desiderio e dalla volontà di Tutto e di Niente e, altre volte, dai consigli di persone che vivono nei luoghi dove va a dipingere. Quasi tutte le opere sono autoprodotte e autofinanziate dall’artista stesso, che cerca di creare in autonomia con quello che ha (…) materiali nobili, o poveri reperiti in maniera fortuita che simboleggiano la bellezza della causalità e della piena indipendenza artistica. Le opere sono un mezzo attraverso il quale entrare in contatto con gli abitanti di un quartiere, scoprire le loro storie e tradizioni e diventarne parte integrante. L’obiettivo è quello di favorire l’interazione tra gli abitanti dei vicoli di Palermo e l’autore, che si presta a spiegare le ragioni del suo lavoro e talvolta asseconda le richieste dei suoi fruitori».

Le opere di Tutto e Niente spaziano da un ritratto a bomboletta di Franca Viola, divenuta famosa per aver rifiutato un matrimonio riparatore a seguito di uno stupro avvenuto in Sicilia, a quelli delle eteree madonne siriane e afgane, passando per le sorridenti madri africane. Poi ci sono i Gesù Cristo ingioiellati, le dee greche, le sante – come Rosalia, la protettrice della città di Palermo – la ragazzina palestinese che nasconde il viso nel verde speranza della bandiera del suo popolo, le combattenti curde, un Peppino Impastato bambino che svetta nel giallo… Sono tutti archetipi di amore e coraggio, pilasti indistruttibili che sostengono la street art dalle fondamenta.





 

 

INTERVISTA

 


D. L’artista newyorkese John Fekner ha fatto il suo primo stencil a New York City nel 1968, consacrandosi come un vero e proprio pioniere della controcultura underground, che è la pancia e il cuore della street art. Ad oltre cinquant’anni  dalla nascita degli “stencil graffiti”, ti chiedo: cosa ha fatto sorgere te come artista?

 

R. Evyrein: Il mio percorso è stato ispirato dalla fervente energia della street art e dal desiderio di esplorare la città come tela. Mi sono avvicinato all’arte urbana con l’idea di trasformare gli spazi pubblici, esprimendo le mie idee in modo provocatorio e stimolante. La creazione di stencil è stata una delle mie prime forme espressive, una risposta alla tradizione avviata da pionieri come John Fekner. Attraverso il mio lavoro, cerco di sfidare le convenzioni, raccontare storie e suscitare riflessioni sulla società e sulla cultura contemporanea e la street art è per me una forma di espressione liberatoria, un modo di comunicare senza barriere e di lasciare un’impronta indelebile nel tessuto urbano.

 

R. Tutto e Niente: L’atto di creare è lotta e deve essere guidato da una motivazione profonda. Si tratta di una lotta contro un nemico preciso, che può essere un’idea, una posizione, un divieto. Io, personalmente, nell’atto creativo cerco di raggiungere un obiettivo, che è quello di veicolare un messaggio.

 

 

D. Credo che l’unico tipo di protesta che riesca a scuotere le persone e a coinvolgerle intimamente sia quella che parte dall’arte. Gli artisti sono incubatori naturali di rivoluzioni. Io, da scrittrice, lo vivo come una missione. La nostra è arroganza, o vocazione?

 

R. Evyrein: L’arte come forma di protesta è certamente un potente mezzo di coinvolgimento emotivo e di scuotimento delle coscienze. La tua visione come scrittrice, considerando la missione di scuotere le persone attraverso le parole, è condivisibile. Riguardo all’interrogativo tra arroganza e vocazione, potrebbe essere entrambe le cose. L’arroganza potrebbe manifestarsi nella sfida alle norme preesistenti, nell’affrontare le convenzioni culturali e sociali con audacia. D’altra parte, la vocazione si riflette nella consapevolezza dell’importanza del tuo ruolo come scrittrice e dell’impatto che le tue parole possono avere nel plasmare la società e le mentalità. In sostanza, potrebbe essere una combinazione di entrambi: l’arroganza come forza motrice audace e la vocazione come un richiamo interiore alla responsabilità e all’impatto positivo che la tua arte può avere sulla società.

 

R. Tutto e Niente: Ogni artista sente lo stimolo naturale di creare e l’arroganza è parte integrante di quell’esigenza impellente; ma questo non deve essere letto in accezione negativa: l’arroganza per l’artista dovrebbe risiedere nel fatto che egli crede profondamente in ciò che fa. Il bisogno di creare appagato è la soddisfazione più grande. Quindi sì, tratta di una vera e propria vocazione.

 

 

D. Quella dell’anonimato è una scelta che ha a che fare unicamente con l’illegalità del tuo lavoro, oppure è parte integrante e imprescindibile di ciò che fai?

 

R. Evyrein: L’anonimato nel mio lavoro è una combinazione di scelta pratica e parte integrante della mia espressione artistica. Inizialmente, è nato come una risposta alle possibili implicazioni legali del mio lavoro (prima che la digos venisse a farmi visita a casa), fornendomi una sorta di protezione. Tuttavia, nel corso del tempo, è diventato un elemento fondamentale della mia identità artistica. La mancanza di un volto permette alla mia arte di parlare da sola, senza essere influenzata dalla mia persona o dalle aspettative del pubblico ed è diventato un modo per concentrare l’attenzione sul messaggio e sulla forma dell’opera, piuttosto che sulla mia identità personale.

 

R. Tutto e Niente: L’anonimato è un istinto primordiale per gli street artist: la riappropriazione di un’identità alternativa che serve a tutelarsi e al contempo distaccarsi dalla paternità dell’opera; quello che importa non è chi sono io, ma il messaggio che lascio per i vicoli della mia città. E poi, “Tutto e Niente” significa essere come chiunque, non ergersi al di sopra di nessun altro individuo, saper lasciare andare le cose. Questo non significa eliminare il proprio Io, ma lasciarne emergere l’essenza. L’identità, talvolta, può essere sgradevole perché riduttiva della complessità di una persona.

 

 

D. La prima cosa che Fekner, famoso per le sue opere ambientali e concettuali per esterni verniciate a spruzzo, mi ha detto quando ci siamo parlati è stata: «Credo che sia gli artisti emergenti che quelli affermati vengano spazzati via dal profitto, dalla commercializzazione e dai legami con i marchi, a cui non frega niente delle generazioni future. Rovina e oscurità». Cosa pensi in proposito?

 

R. Evyrein: Le parole di Fekner risuonano come un grido di allarme in un epoca, la nostra, in cui l’arte è spesso divorata dal business e la commercializzazione e il legame con i marchi può distorcerne l’autenticità, trasformando gli artisti in pedine di un gioco profit-oriented. La preoccupazione per il futuro delle generazioni successive è legittima, poiché la corsa al profitto potrebbe mettere a rischio la vera essenza dell’arte… Tuttavia, questo non significa che la commercializzazione debba essere demonizzata completamente. Può essere uno strumento per sostenere gli artisti e far emergere il loro talento e il dilemma sta nel trovare un equilibrio tra il successo commerciale e la preservazione dell’integrità artistica. In definitiva, la lotta tra profitto e pura espressione artistica è un tema complesso e attuale, che richiede una riflessione approfondita nel contesto dell’arte contemporanea.

 

R. Tutto e Niente: Quello che dice Fekner è vero: oggi l’arte passa anche per la caccia allo sponsor, vedi il muralismo commissionato, che per me non è vera street art. Io preferisco fallire in questo intento. Infondo, si tratta di controcultura e così deve continuare a vivere. La matrice è la strada e lì deve rimanere. Anche perché, altrimenti non è un reale calarsi nel buco del luogo, capisci? Katà métron, come dicevano i greci, “nella giusta misura”; la strada è lo spazio e io, come individuo, devo sapermici adattare, non viceversa. Il fine merita il rischio e il rischio è parte integrante del messaggio che si vuole comunicare. Per intenderci, io non accetterei di realizzare un murales pagato per Gucci, perché la mia è e deve rimanere un’azione libera, contro ogni sistema che canalizzi, gestisca e commercializzi la street art. Questo significa essere un ousider.

 

 

D. Il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, quindi ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo i tuoi lavori potrebbero cambiarla in meglio.

 

R. Evyrein: In un’epoca in cui la comunicazione spesso si perde nel rumore di fondo delle informazioni superficiali e delle opinioni effimere, io concentro il mio lavoro per riportare al centro l’importanza della riflessione e della profondità. Attraverso opere provocatorie e installazioni urban, cerco di stimolare una connessione più autentica tra le persone e il loro ambiente. Laddove il mondo di oggi talvolta si perde nell’individualismo e nell’alienazione digitale, io dò vita ad opere che incitano alla consapevolezza sociale e all’empatia; utilizzando spazi pubblici come tela, miro a rafforzare il senso di comunità e a sollecitare una riflessione critica sulla realtà che ci circonda. In breve, la mia arte potrebbe essere uno specchio che riflette le sfide e le contraddizioni della società contemporanea, incoraggiando una riflessione più profonda e, spero, un cambiamento positivo.

 

R. Tutto e Niente: Una cosa che non mi piace, oggi, è l’imposizione della monocultura, l’idea che ci sia un solo modo giusto di vivere e di fare. Non mi piacciono le identità chiuse, anche perché sono illusorie: oggigiorno siamo tutti culturalmente meticci ed è un bene, un bene che va preservato. Non mi piacciono gli schemi perché uccidono la naturale curiosità insita nell’uomo, appiattendolo. L’eclettismo, i legami, le differenze, la varietà: questo crea la bellezza. Sono le insicurezze ad obbligare le persone ad adattarsi a modelli preconcetti. Io mi nutro delle diversità antropologiche, d’altronde la Sicilia è un ombelico del mondo e sono stato abituato a notare ed apprezzare ciò che è diverso da me. Per questo motivo uso spesso gli archetipi nel mio lavoro: fanno da ponte tra le culture, ci differenziano e ci uniscono. Immagina di avere a disposizione un milione di parole e di usarne solo quattro o cinque: sarebbe riduttivo. Io voglio usarle tutte. Di questo mi nutro e questo voglio comunicare alle persone. Auspico un risveglio.

 



John Fekner ha realizzato il suo primo stancil all’aperto a New York City, nel 1968, diventando così un pioniere della stancil art nella controcultura underground americana. Negli anni Settanta, Fekner era noto (in modo anonimo) per aver realizzato oltre trecento opere ambientali/concettuali costituite da date, parole e simboli dipinti con spray nei cinque distretti di New York. Il progetto “Warning Signs” si è concentrato sull’individuazione delle condizioni pericolose che dominavano New York City e i suoi dintorni negli anni Settanta, iniziando una crociata incessante che si occupava di questioni sociali e ambientali. A partire dalle strade industriali del Queens e dai ponti dell’East River, e successivamente nel South Bronx nel 1980, i suoi messaggi vennero avvistati in aree che avevano un disperato bisogno di costruzione, demolizione o ricostruzione. Etichettare le strutture ed enfatizzare i problemi aveva lo scopo di richiamare l’attenzione sullo squallore accumulato, esortando i funzionari della città, le agenzie e le comunità locali ad essere più responsabili e ad agire.



Decay and Abandoned on neglected properties in Queens, 1978-83 (John Fekner)


Charlotte Strett, South Bronx 1980 (John Fekner)


The NO TV/Read stencil project is Fekner’s first project in which he creates multiple versions in other media including video, music, painting and performance (John Fekner)



Per questo pezzo, John ha realizzato lo stancil statement che così declama:

«È della massima urgenza che gli artisti di ogni Paese continuino a creare nuove opere in risposta alle orribili e devastanti atrocità inflitte sugli innocenti e i sui bambini palestinesi».

 



 

Se sei un’artista e vuoi dare il tuo contributo alla causa palestinese visita

 

«Come molte persone in tutto il mondo, siamo scioccati dalla situazione in Palestina, e lo siamo da molti anni. La Palestina è sotto attacco. Migliaia di civili stanno morendo a Gaza. I governi europei sono complici di questo genocidio. Il loro silenzio fa male.

 

Inoltre, quello che assedia Gaza oggi è molto più di un semplice muro di cemento. Dopo il tragico attentato del 7 ottobre, Israele non permette ai giornalisti di entrare a Gaza. Hanno anche tagliato l’elettricità e Internet, creando un Media Wall che non consente il necessario equilibrio nella costruzione della Storia. Fortunatamente, ci sono ancora alcuni fotoreporter a Gaza che rischiano la vita per documentare l’attacco. É grazie all’etica del fotogiornalismo, che le immagini catturate ci forniscono un resoconto fedele di ciò che sta accadendo a Gaza. Non vengono manipolati dall’intelligenza artificiale, né sono trasformati in alcun modo.

 

Questo è il motivo per cui noi, un gruppo di artisti e amici preoccupati, abbiamo deciso di creare opere d’arte dalle immagini scattate da questi straordinari giornalisti, incollandole nelle nostre città e aggiungendo il simbolo “MUTE”. È solo un piccolo gesto per dire NON SIAMO D’ACCORDO, NON SIAMO COMPLICI, NON GUARDIAMO ALTROVE.

 

Creando opere basate sulle immagini di questi fotoreporter professionisti, desideriamo costruire un ponte tra la nostra comunità di artisti e coloro che affrontano la morte ogni secondo. Un modo semplice per sostenere la causa palestinese, mostrando la verità.

 

Desideriamo rimanere anonimi sulla stampa, poiché lo scopo di questa iniziativa è sostenere il lavoro dei fotoreporter, amplificare la loro voce in modo artistico per ampliare la portata della diffusione e aumentare la consapevolezza sulla situazione. Non si tratta di noi. Questo è il motivo per cui, sui nostri materiali stampati, menzioniamo solo che si basano su un’immagine del fotoreporter (nome), Gaza, data della foto.

 

Condivideremo i lavori sul nostro sito web www.unmutegaza.com e sui social media @unmutegaza e incoraggeremo il pubblico a scaricare liberamente le stampe in PDF e incollarle in tutto il mondo. Chiediamo gentilmente alle persone di condividere con noi le immagini delle stampe incollate.»


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