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Fuoco, cammina con me

  • Immagine del redattore: Alice Rondelli
    Alice Rondelli
  • 15 mar
  • Tempo di lettura: 12 min

Aggiornamento: 7 giorni fa

Il gesto estremo dell’ex soldato americano Aaron Bushnell, che lo scorso anno si è dato fuoco per contestare il contributo di Washington al genocidio palestinese, ci spinge a riflettere sul senso profondo della protesta. Il recente riarmo dell’Unione Europea e gli intenti ambigui della manifestazione che si terrà il 15 marzo a Roma ci conducono ad interrogarci circa un’altra questione fondamentale: siamo ancora capaci di protestare?
ph. Poster di Tutto e Niente, New York City (2022)

Spiega il Dizionario Treccani: «Harakiri è un termine giapponese che indica il suicidio obbligatorio o volontario con cui il samurai si sottraeva alla pena capitale, o manifestava solennemente la propria protesta contro un’ingiustizia patita o il proprio cordoglio per la morte del suo signore. Si praticava squarciandosi il ventre con la spada ed era il privilegio esclusivo della casta samurai».

Il codice del samurai scritto da Yamamoto Tsumemoto nel XVII secolo diceva: «la Via del samurai è la morte». Con questo non si riferiva solamente alla morte del guerriero in combattimento, ma anche al suo dovere di suicidarsi prima di accettare la resa. Dai periodi più antichi della storia giapponese vennero messi in pratica diversi metodi di suicidio d’onore, come quello di gettarsi in acqua con l’armatura indosso o saltare da cavallo con la spada in bocca. Ma il più conosciuto ed emblematico fu quello di trafiggersi il ventre con un pugnale, chiamato harakiri o, secondo il termine più formale, seppuku. Anche se sicuramente nacque prima, il primo caso documentato risale al XII secolo, quando il settuagenario samurai Minamoto no Yorimasa, trovandosi ferito e circondato al termine di una battaglia, si tolse la vita in questo modo. Il samurai si eviscerava eseguendo un taglio orizzontale e uno verticale nello stile jumonji o “del numero dieci”, per via dell’ideogramma che disegnavano gli squarci. L’obiettivo era tagliare i centri nervosi della colonna, provocando una lunga agonia; perciò, anche se si considerava onorevole immolarsi da soli, generalmente era comune impiegare un “secondo”, il kaishakunin, per decapitare il suicida non appena si fosse pugnalato.

(Fonte: National Geographic).

 

Nel primo pomeriggio di domenica 25 febbraio 2024 Aaron Bushnell si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington. Aveva 25 anni ed era un militare dell’aeronautica militare di stanza a San Antonio, in Texas. Arrivato davanti all’ambasciata, e fino al momento in cui è crollato a terra, Bushnell non ha mai smesso di gridare «Free Palestine».

Quella mattina aveva scritto su Facebook: «Molti di noi amano chiedersi: “Cosa avrei fatto se fossi stato vivo durante la schiavitù? O durante le leggi Jim Crow degli stati del Sud? O l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?” La risposta è: quello che stai facendo. Proprio adesso». Il post includeva un collegamento a uno streaming live della sua protesta sulla piattaforma Twitch.

«Il mio nome è Aaron Bushnell», ha detto mentre si cospargeva il corpo di benzina «Sono un membro in servizio attivo dell’aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che la gente ha vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale».

Nei giorni successivi, emersero notizie che descrivevano Bushnell come “anarchico” ed ex membro di una setta religiosa carismatica e che facevano riferimento a prove non specificate di disagio mentale che lo avrebbero condotto al suicidio.

 

Il gesto di Bushnell richiama quello dei monaci buddhisti di Saigon, a fine anni Sessanta contro la guerra statunitense in Vietnam. Il 10 giugno del 1963 alle nove del mattino nella città di Saigon (attuale Ho Chi Minh City), nel Vietnam del Sud, un’automobile avanzava lungo la strada, seguita da monaci e monache buddhisti che marciavano insieme tra slogan e cartelli che inneggiavano all’uguaglianza religiosa. Arrivata a un incrocio l’automobile si fermava e un monaco, sedendosi a terra nella posizione del loto e recitando il mantra del Buddha Amitābha, attendeva che un confratello gli versasse sul capo e sul corpo una tanica di benzina. Il fuoco divampò e il fiore di loto umano si bruciò, ma continuò la meditazione con il mantra Nam Mô A Di Đà Phật, mentre la polizia cercava di disperde la folla e i manifestanti. Al tramonto migliaia di abitanti di Saigon dichiararono di aver visto in cielo l’immagine di Buddha piangente.

 

Eppure, nonostante l’apparenza, la vicenda di Aaron Bushnell mi ricorda molto di più il sacrificio del samurai per via di quella sete di giustizia che non trova sollievo terreno e che deve dunque rivolgersi altrove. Cosa sia quell’altrove me lo sono domandato più volte, anche nel caso dei monaci buddhisti che si diedero fuoco per protesta. Ma questa è una di quelle azioni verso la quale i sentimenti che si sperimentano dinanzi alle immagini sono contrastanti rispetto a quelli che si vivono con la ragione.

Più di una volta mi è capitato di domandarmi se sia sensato o meno sacrificare la propria vita in nome di un ideale non combattendo il nemico, ma distruggendo la propria esistenza in segno di protesta.

Oggi mi sono dovuta domandare cosa sia una protesta, o meglio: qual è lo scopo della protesta?

 

Prima di provare a dare risposta a questa domanda, voglio approfondire il concetto di autoimmolazione come azione facente parte delle pratiche ascetiche buddhiste.

 

Scrive Kim Han-Sang Research Professor presso la Hankuk University of Foreign Studies della Corea del Sud: «L’autoimmolazione si riferisce alle pratiche ascetiche buddhiste che includono la terminazione volontaria della propria vita o l’offerta di parti del proprio corpo, solitamente dandosi fuoco. Sia nella tradizione buddista settentrionale (Mahāyāna) che in quella meridionale (Theravāda), l’autoimmolazione è stata considerata un atto eroico del Bodhisattva per porre fine alla propria vita con una motivazione spirituale e un forte senso di determinazione. Nei tempi moderni, l’autoimmolazione è spesso utilizzata come forma estrema di protesta o atto di martirio».

Il termine bodhisattva, in senso letterale, indica un essere vivente (sattva) che aspira all’Illuminazione (bodhi), per sé stesso e per gli altri, conducendo pratiche altruistiche. La compassione – vale a dire la condivisione empatica delle sofferenze altrui – è l’ideale distintivo di questi individui.

Nel buddhismo indiano (Mahāyāna) l’autoimmolazione non è giustificabile; in primo luogo, perché riduce l’opportunità di raggiungere la liberazione prima di aver fatto un uso appropriato della propria vita al massimo del suo potenziale; in secondo luogo, perché è una forma di automodifica o severo ascetismo che causa un dolore fisico estremo e può portare alla morte; in terzo luogo, a causa del fatto che è un atto motivato da un desiderio di non-esistenza; e infine, perché va contro il concetto di “amor proprio” (attā-piya), che è considerato un prerequisito necessario per esprimere “amorevole gentilezza” (mettā) verso gli altri esseri.

Fatte queste considerazioni, Kim Han-Sang afferma che l’autoimmolazione non è in linea con gli insegnamenti originali del Buddha e che non può in alcun modo essere riconosciuta come eroica o nobile.

Tuttavia, dare fuoco all’intero corpo o a parti di esso è stato molto elogiato nei testi buddhisti cinesi tra il V e il X secolo e la pratica continua ancora oggi simbolicamente nelle cerimonie di ordinazione monastica buddhista cinese e coreana.

Nei tempi moderni, l’autoimmolazione è stata trasformata in uno strumento di protesta politica. Dal 1998, infatti, monaci tibetani e gente comune si sono dedicati all’autoimmolazione, dando fuoco ai propri corpi per protestare contro il dominio cinese sulla loro patria.

Di questa pratica abbiamo numerosi esempi.

Un monaco birmano, U Wisara (1895-1930), protestò contro il trattamento che i monaci ricevevano in prigione sotto il dominio coloniale britannico e morì dopo un prolungato sciopero della fame. Ora è venerato come martire nazionale in Myanmar. Un monaco buddista in Cambogia si è dato fuoco in sacrificio al Buddha nel 2006. Nel 2013, il monaco buddista Indarathana si è dato fuoco fuori dal Tempio della Sacra Reliquia del Dente in Sri Lanka per protestare contro l’uccisione del bestiame e la presunta conversione dei buddhisti a fedi minoritarie dello Stato.

 

Uno studio del 2011 ha rilevato «un tasso potenzialmente elevato di malattie mentali tra coloro che hanno riportato ferite per ustioni autoinflitte che non si limitavano ad atti di protesta, con un’ampia gamma di campioni dal 18% al 92%». Nei paesi a basso reddito, dove c’è un tasso di autoimmolazione molto più elevato rispetto ai paesi ad alto reddito «le autoimmolatrici avevano maggiori probabilità di essere donne giovani non afflitte da malattie mentali che si ribellavano o cercavano una via di fuga dall’oppressione politica e sociale o dagli abusi domestici».

L’autoimmolazione è particolarmente comune in Medioriente, dove fino al 70% di tutti i suicidi avviene tramite autoimmolazione. Una meta-analisi del 2018 di studi pubblicati tra il 2000 e il 2018 ha rilevato 5.717 casi di autoimmolazione in Iran con un’età media di 27 anni, di cui il 70% erano donne e solo il 20% erano colpite da malattie mentali. Secondo uno studio pubblicato su Science Direct nel giugno 2023, intitolato: Self-immolation in the Arab world: A systematic review, «l’autoimmolazione è particolarmente comune in Medioriente, dove fino al 70% di tutti i suicidi avviene tramite questa pratica. (…) Una recente revisione di studi pubblicati tra il 2000 e il 2022 ha rilevato una predominanza femminile simile tra 4.486 autoimmolatrici in Iraq. Per queste donne, l’autoimmolazione è spesso sia un atto di protesta politica contro l’oppressione, sia una fuga personale attraverso il suicidio».

 

Impressiona pensare che Bushnell si sia immolato per la causa palestinese con una pratica così diffusa proprio in Medioriente, e sconvolge riflettere sul fatto che ad unire un ex militare americano e una qualsiasi donna iraniana sia il senso di oppressione che si prova dinanzi ad un doloroso senso di impotenza per le faccende della vita, sia che esse riguardino un popolo straziato dal genocidio o noi stessi: il dolore degli altri o il nostro dolore.

 

Proprio in questi giorni è stato approvato a larga maggioranza dall’Europarlamento il piano ReArm Europe proposto dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Come scrive L’indipendente: «Il testo, passato con 419 voti a favore, 204 voti contrari e 46 astenuti, segna un passo decisivo verso il riarmo, dando il semaforo verde a una proposta che prevede investimenti per 800 miliardi di euro nei prossimi quattro anni per la difesa. I partiti italiani di maggioranza si sono divisi, con il sì di Fratelli D’Italia e Forza Italia e il voto contrario della Lega. Spaccato il Partito Democratico, tra astenuti e a favore. Un secco no è invece arrivato dal Movimento 5 Stelle e da Alleanza Verdi e Sinistra.»

«Il piano ReArm, che ha recentemente ottenuto l’ok del Consiglio Europeo, prevede una serie di misure volte a rafforzare la capacità militare degli Stati membri attraverso un aumento degli investimenti nel settore della difesa. Uno degli elementi centrali del piano è la possibilità per i Paesi dell’UE di incrementare in modo significativo la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita. Questo meccanismo consentirà di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie. Il piano ReArm punta altresì a coinvolgere il settore privato nella produzione e nello sviluppo di tecnologie per la difesa, favorendo un’integrazione tra industria e finanza. A tal fine, è prevista una revisione dello statuto della Banca Europea degli Investimenti, che in futuro potrà fornire finanziamenti diretti alle aziende operanti nell’industria militare.»

 

Con un lungo post sui suoi canali social la ONG Emergency ha comunicato che non sarà presente alla manifestazione Una piazza per l’Europa organizzata a Roma per sabato 15 marzo.

«Condividiamo la necessità di restare uniti in questo momento di gravissima crisi internazionale, ma serve dire con chiarezza qual è l’idea intorno a cui vogliamo ritrovarci insieme. In questo momento la Commissione con la maggioranza dei governi europei ha deciso di affrontare il cambiamento epocale che ha di fronte con un riarmo massiccio per 800 miliardi di euro, attingendo anche a fondi destinati alla coesione sociale (…). Emergency ha a che fare quotidianamente con le conseguenze di queste scelte. Siamo convinti che – se vuole rappresentare una vera alternativa nel contesto internazionale – l’Europa debba cambiare profondamente: investendo sulla diplomazia, sugli organismi internazionali, sul welfare, sulla praticabilità dei diritti (…). In assenza di una piattaforma chiara che esprima per quale idea di Europa è convocata questa manifestazione – quella del riarmo o quella della diplomazia e dei diritti – per noi rimane impossibile aderire, anche se in quella piazza ci saranno persone che stimiamo e rispettiamo e con le quali intendiamo camminare ancora insieme.»

 

Scrivono Tomaso Montanari e Francesco Pallante: «Per cosa manifesterà la «piazza europeista» del 15 marzo? A giudicare dalle adesioni, è certo che chi ci sarà avrà idee molto diverse sull’Europa, spesso idee radicalmente opposte. “Zero bandiere di partito, solo bandiere europee”: ha scritto l’ideatore della manifestazione, Michele Serra (giornalista di Repubblica). Giusto, ma accanto alla bandiera europea dovrebbe essercene un’altra: quella della pace. Una bandiera che impedirebbe ai governi europei di mettere il cappello, anzi l’elmetto, a una manifestazione di popolo “per la libertà e l’unità dei popoli europei”».

 

Alla decisione di Emergency si è unita anche l’organizzazione non profit Un ponte per, che opera in Siria e che scrive: «Ottocento miliardi di euro spesi per fare scorta di armi, rifornire i nostri eserciti, riempire gli arsenali di bombe e droni. Non è questa l’Europa che vogliamo. Per questo, il 15 marzo noi di Un Ponte Per non saremo in piazza. Sono fondi che andrebbero ad impoverire ulteriormente bilanci già miseri, anteponendo la crescita delle spese militari e il business delle armi ai necessari investimenti nel sociale, per una transizione ecologica, per combattere le disuguaglianze economiche e di genere. Mentre assistiamo al crollo del valore del Diritto Internazionale su scenari geopolitici sempre più instabili, temiamo che questa piazza non ci rappresenti. Siamo a favore del disarmo (…) e sosteniamo la necessità di riprendere il percorso iniziato ad Helsinki nel 1975 per la creazione di un sistema di sicurezza comune e condiviso. Vorremmo rilanciare, a 30 anni dalla Conferenza euromediterranea di Barcellona, l’idea di un Mediterraneo che sia mare di pace e cooperazione».

 

Anche Arcigay Bologna prende le distanze «da alcune realtà del movimento a livello nazionale (…). la corsa agli armamenti invocata da Von der Leyen, con la quale la manifestazione del 15 è in un rapporto ambiguo e a oggi non chiarito, (…) ci sembra espressione di un nazionalismo e di una corsa al rafforzamento delle frontiere, con cui noi non vogliamo avere niente a che fare».

 

Non ha aderito neanche Arci nazionale poiché, scrive: «Quella piazza non riesce a essere la nostra piazza fino in fondo (…). Sostenere l’Europa solo sulla spinta emotiva rischia di trasformare un giusto sentimento in un sostegno incondizionato alle politiche di guerra che l’attuale Commissione Europea, d’intesa con gli Stati membri, sta portando avanti con scelte impressionanti (…)».

 

Per trovare risposta alla domanda iniziale, ovvero: «qual è lo scopo della protesta?», appare opportuno formulare un’altra domanda: sappiamo ancora protestare?

Sì, perché è evidente che oggigiorno l’idea non sia tanto quella di schierarsi in maniera compatta contro l’oppressore, la guerra, le disuguaglianze e le ingiustizie, ma piuttosto quella di manifestare la propria esistenza come parte di una certa categoria. Questa pratica, spinta da una decisa propaganda che passa in particolar modo per i social network, ha creato e continua a fomentare una frammentazione del popolo in tante piccole realtà che, così strutturate, perdono sistematicamente la propria forza; inutili categorie ed etichette frutto di mistificazioni sempre più fantasiose della realtà, che è e rimane una sola: noi contro il potere illimitato delle istituzioni statali e sociali che, come stiamo vedendo, hanno ingurgitato non solo la giustizia sociale, ma anche la democrazia stessa e tutti i suoi tentacoli.

È in questo contesto che si spiega e dispiega il gesto estremo di Aaron Bushnell. La comunità e il senso di appartenenza profondo alla razza umana, che una volta era la fonte dal quale l’individuo attingeva la sua forza per resistere e contrastare le angherie del potere, oggi non esiste più.

Oggi si stratificano una miriade di sedicenti comunità alle quali solo chi possiede determinate caratteristiche può anelare di appartenere. L’identità personale si stempera così in un mare di identità prescritte che esimono l’individuo dalla fatica di porsi le giuste domande sullo scopo della sua stessa esistenza e sul senso di appartenenza a qualcosa di più grande: l’umanità.

Quello che tragicamente resta, ai più sensibili di noi, sembra non essere che l’autoimmolarsi e lasciare che il fuoco riscaldi gli ideali che risiedono nel profondo di ogni essere umano, sottraendoli al freddo di una realtà in cui non solo non sappiamo più dare uno scopo alla protesta – che appare sempre più come mero esercizio illusorio di un potere che non abbiamo – ma nella quale non siamo più in grado provare la nostra più intima esistenza attraverso atti di ribellione significativi.

 

Henry David Thoreau, il padre de La disobbedienza civile, scrisse nel suo Camminare: «Ogni vagabondaggio è una sorta di crociata, predicata dal san Pietro l’Eremita che è in noi, per indurci a uscire e riconquistare la Terra Santa dalle mani degli infedeli. È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai nostri giorni, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare, come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni.»

 

Thoreau sosteneva che il Camminatore Errante rappresenta una sorta di quarto stato, al di fuori della Chiesa, della Nazione, e del Popolo. E, dunque, se la protesta ha effettivamente uno scopo è quello di riappropriarci della nostra capacità di progredire, di marciare in direzione della nostra natura di esseri umani. Protestare è indipendenza assoluta dalle leggi dell’uomo, è camminare verso qualcosa di invincibile che è in noi: la libertà di esistere.

 

Autoimmolarsi per protesta non è necessario. Ciò che serve è far ardere la fiamma dei nostri ideali e lasciare che il fuoco cammini assieme a noi.

 

 

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