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Immagine del redattoreAlice Rondelli

Conversazione con saskia terzani

L'esempio come insegnamento, il senso di impotenza dinanzi alle ingiustizie del mondo e la fiducia nella capacità di discernimento delle nuove generazioni.

Nello stupendo volume Guardare i fiori da un cavallo in corsa, Àlen Loreti raccoglie documenti, interviste, scritti e fotografie del giornalista e scrittore Tiziano Terzani.

All’interno ho trovato un pezzo del parroco e autore Silvano Nistri, che scrive: «“Il filo di questo racconto” dice Terzani al figlio Folco “è il cercare.” (…) Questa domanda Terzani non finisce mai di porsela durante tutta la vita. È un giovane fiorentino, viene da una famiglia umile, ha avuto la fortuna di studiare alla Normale di Pisa e ha trovato lavoro quasi subito in un’industria particolare per le idealità che la ispirano come l’Olivetti. È orientato a sinistra ma senza tessere e, si direbbe, senza schemi ideologici. Una sua inquietudine si rivela subito in Giappone, dove l’Olivetti nel 1965 lo manda a tenere corsi aziendali: un mondo nuovo, spiritualmente nuovo. In Giappone Tiziano scopre l’Asia. Entra in crisi con il suo lavoro, che abbandona molto presto senza rimpianti. Vuole essere presente là dove si fa la storia. “Il mio istinto mi ha sempre aiutato a sentirla. Io ho avuto la grande fortuna in tutta questa mia vita giornalistica che ho sentito la Storia, la Storia con la esse maiuscola”: vuole essere giornalista, inviato speciale. E arrivano le prime collaborazioni con giornali italiani. Poi Der Spiegel, il giornale giusto, che gli permette di scrivere ciò che gli interessa. Sceglie subito l’Asia perché là sono i popoli che avanzano: la Cina, il Vietnam, la Cambogia, il Laos, il Giappone, l’India... La via che intraprende nel suo cercare è la via dell’uomo, della storia dell’uomo.»



ph. scatti dal libro "Guardare i fiori da un cavallo in corsa" (Alice Rondelli)

Sempre, o quasi, accompagnato dalla moglie, Angela, e dai due figli: Folco e Saskia, Tiziano vive senza risparmiarsi. Nel libro edito da Longanesi: L’età dell’entusiasmo, Angela Terzani Staude narra con voce poetica e lucidissima la loro storia familiare. Una cosa su tutte colpisce il lettore: lo sguardo appassionato con il quale Angela e Tiziano hanno osservato il mondo, la storia e le sue vicende umane. Durante la lettura mi sono spesso domandata cosa abbiano assorbito gli occhi di Saskia, la loro secondogenita, nata nel 1971.

A seguito di un “corteggiamento” telefonico durato mesi, la riservata e gentile Saskia ha acconsentito a rilasciarmi l’intervista a cui tanto tenevo.

Nel frattempo, io e lei abbiamo avuto modo di chiacchierare diverse volte; ci siamo anche incontrate ad un reading a Milano, in occasione dei vent’anni dalla scomparsa di Tiziano. La casa editrice Longanesi ha voluto celebrare il padre di Saskia con una nuova edizione illustrata di uno dei suoi testi più amati dai lettori: Un indovino mi disse.

Alla fine l’intervista si è trasformata in una conversazione telefonica tra due donne dal temperamento opposto, unite da una sensibilità comune per ciò che riguarda la questione palestinese.

Dunque, con Saskia Terzani nasce una nuova categoria di (F)ATTUALE: Conversazioni.



ph. scatti dal libro "Guardare i fiori da un cavallo in corsa" (Alice Rondelli)

CONVERSAZIONE


Alice. Dalla tua epopea familiare si trae una lezione importante: il miglior metodo d’insegnamento è l’esempio. Cosa significa crescere secondo questo principio, come è accaduto a te e a tuo fratello Folco?

 

Saskia. L’esempio è ciò che rimane. Le scelte che in nostri genitori hanno fatto per noi figli sono state d’impatto sulle nostre vite; per esempio, tante famiglie straniere che vivevano ad Hong Kong preferivano mandare i figli a studiare in collegio in Inghilterra. Noi, invece, seguivamo i nostri genitori in tutti i loro spostamenti. Quindi, quando andammo vivere in Cina decisero di farci studiare in una scuola cinese, dove c’erano pochissimi stranieri e non certo occidentali. Così, noi abbiamo vissuto assieme ai nostri genitori le loro scelte di vita, a me e a mio fratello non è stato risparmiato nulla: ci hanno immersi in quel mondo. Il babbo aveva molto chiaro in testa il fatto che la scelta più saggia non fosse quella di farci studiare in un istituto francese mediocre di Pechino; tanto valeva fare il passo coraggioso di farci studiare in una scuola in cui potevamo imparare la lingua cinese. Ancor più perché la vera “educazione” non era quella che imparavi a scuola, ma quella di immergersi in un’altra cultura.

 

A. La tua formazione ti ha portata certamente a sviluppare una sensibilità fuori dal comune. Cosa provi, oggi, nel vedere la guerra e il dolore delle persone da dietro uno schermo, tu che hai vissuto accanto a un uomo che voleva toccarla con mano la vita?

 

S. Da un lato, oggi c’è una moltitudine di immagini che una volta non c’era; veniamo inondati, se andiamo a cercarcele quelle immagini, ovviamente. C’è gente che dopo oltre 400 giorni di guerra sembra non sia ancora perfettamente al corrente degli orrori che vengono inflitti alla popolazione di Gaza, Cisgiordania e Libano. Altrimenti se uno, appunto, queste informazioni le va a cercare, c’è una moltitudine di immagini che può quasi sopraffare. Ogni giorno si vedono bambini a brandelli, case disfatte, intere vite schiacciate, madri fatte a pezzi dal dolore di dover seppellire l’ennesimo figlio… È uno stato di trauma continuo. Penso che prima non fosse così. Anche se i giornalisti che, come mio padre, andavano al fronte perché volevano vedere la guerra con i propri occhi. Mio padre raccontò del primo morto che vide: fu uno shock. Noi non abbiamo questo genere di testimonianza diretta e ci mancano gli odori i rumori… Ci manca la possibilità di guardare a 360 gradi la situazione: vediamo solo delle schermate…

 

A. Ci manca l’epidermico.

 

S. Ci manca l’epidermico sì, e c’è questo contrasto tra la quantità di immagini che vediamo, che è una cosa nuova, e il fatto che non siamo affatto lì, siamo lontanissimi. Viviamo il disagio del “fare”, pensiamo: «Cosa faccio, metto un “like”?», ma poi un “like” a cosa serve? Può rappresentare una forma di solidarietà, sì; però, infondo, a cosa serve?

 

A. Anche perché tuo padre stava lì dove c’era la gente, noi invece possiamo continuare le nostre vite. E questa è una cosa allucinante. A volte ci penso: «Io stasera esco, vado a cena e nel frattempo, da un’altra parte, c’è una situazione che mi tocca così profondamente… Non riesci a vivere completamente il dolore, è un dolore a metà.

 

S. È un dolore a metà, sì. Lo hai descritto molto bene. È un dolore che da un lato crea un trauma, perché vediamo tutto l’aspetto cruento della guerra, l’orrore; però, appena stacchi dal telefonino o esci di casa non ci sono le macerie, non ci sono i droni, non ci sono le persone evacuate, non ci sono i corpi per strada… Quindi, è quasi una schizofrenia e questo è preoccupante. Dobbiamo provare a cercare la via di mezzo. Far sì che la nostra partecipazione alla causa palestinese non sia una forma meramente voyeuristica, ma che si converta in qualcosa di utile. È questa la grande domanda: come possiamo essere utili? In questo ultimo anno per me è stato molto difficile gestire queste emozioni. Perché se, da un lato, uno rimane attaccato a queste immagini quotidianamente perché non vuole “abbandonare” chi sta soffrendo, perché non vuole che venga meno la testimonianza di ciò che sta accadendo; dall’altro lato c’è da chiedersi a cosa serve tutto questo “condividere”, che offre sì una solidarietà emotiva, ma può dare un sostegno concreto? Pur in un profondo senso di impotenza, a volte mi consolo pensando che l’aver visto e assorbito tutte quelle immagini strazianti abbia contribuito ad una maggiore consapevolezza della lotta decennale dei Palestinesi contro l’occupazione Israeliana, che è un’occupazione violenta e illegale. Il prezzo umano che stanno pagando i Palestinesi e i Libanesi, a seguito del 7 ottobre, è altissimo; ma aver visto le atrocità inflitte a loro, è una cosa che non si può dimenticare. Le maschere sono cadute e adesso che Isreale è indagato per genocidio non ci può più raccontare di essere vittima di antisemitismo e aggrapparsi all’alibi dell’auto-difesa. La percezione di Israele è profondamente cambiata e aiuterà la causa Palestinese verso maggiore giustizia. Chiedono appunto solo giustizia: di avere uguale riconoscimento davanti alla legge, come essere umani e di essere liberi.

 

A. Tuo padre ha sempre desiderato essere al centro degli eventi storici importanti: la Cina di Mao, la resistenza Vietnamita… Tu, di conseguenza, hai vissuto immersa in una moltitudine di culture sin dalla più tenera età. Mi chiedo come queste esperienze abbiamo forgiato il tuo carattere.

 

S. Sicuramente si diventa più adattabili. La mia famiglia ha traslocato in media ogni tre anni, quindi ci si abituava ai cambiamenti e ci si abituava ad “essere un estraneo”; veniva meno quella paura di essere diverso, di non appartenere. Mio padre è cresciuto da vero fiorentino fino all’età di diciotto anni, quindi le sue radici erano profondamente affondate nella sua città; mentre io e mio fratello questa cosa non l’abbiamo mai sperimentata. Questo comporta, da un lato l’avere un’identità un po' frammentata, indefinita ed è una cosa che crescendo può creare un certo disagio; tuttavia, è una cosa, questa, che si supera abbastanza in fretta, soprattutto in un mondo globalizzato com’è il nostro. Invece noi, all’epoca, tornavamo in Italia solamente una volta l’anno, perché i voli erano molto costosi; non era come oggi: il turismo di massa non esisteva. A parte questo, la cosa più bella che ci è rimasta è il fatto di riuscire a sentirci a nostro agio in mezzo a persone che appartengono a culture diverse e, soprattutto, il saper apprezzare la diversità. Chi, invece, è avvezzo a frequentare sempre lo stipo di ambiente e persone simili a sé si sente sicuro nella sua zona di comfort e quando si trova, per un qualunque motivo, fuori da quel che conosce può anche essere che lo viva come una sorta di “minaccia”. Io, invece, tutt’ora se giro per Roma e vedo un indiano mi incuriosisce, perché mi sento attratta dalla diversità. Mi spiego meglio: un indiano o un cinese mi verrebbe da salutarli. Non li vedo come “l’altro”, perché c’è un profondo riconoscersi.

 

A. Quindi, sicuramente, ciò che è stato instillato in voi è una forte curiosità verso l’altro; curiosità che contribuisce a superare la paura di tutto ciò che è sconosciuto. E questo, a mio avviso, è ciò che fa grande il percorso di una persona. Anche quando hai paura di qualcosa, se provi lo stimolo di conoscerla la paura passa e rimangono solo il bello e l’entusiasmo.

 

S. Esatto. Rimane anche l’apprezzamento della diversità. Scopri che la ricchezza viene proprio dallo scambio con una persona che è completamente diversa da te culturalmente; e così, si scopre che umanamente siamo tutti uguali e che la diversità culturale diventa fonte di scambio e di arricchimento

 

A. Da madre di tre giovani uomini, cosa pensi dei in sit-in di protesta in diversi atenei italiani, e non

solo, che al grido di “Intifada studentesca” chiedevano la rescissione di ogni rapporto con Israele? Il Presidente della Repubblica Mattarella ha recentemente definito gli studenti: «Il potere, quello peggiore, che vuole le università italiane isolate.»

 

S. Quello che ha detto Mattarella è agghiacciante. Altrettanto agghiacciante è stata la repressione violenta delle proteste studentesche nelle università americane, inglesi, italiane... Gli studenti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, cosa che è stata strumentalizzata. Tra l’altro si tratta di una libertà che, da come ci è sempre stato detto, è una delle colonne portanti del sistema democratico. Inoltre, non va dimenticato che quegli studenti protestavano contro una guerra e che il loro unico scopo era quello di spingere gli atenei ad interrompere i rapporti con lo stato di Israele, solo ed esclusivamente perché esso sta portando avanti una guerra che miete ogni giorno centinaia di vittime. Il fatto vergognoso è che la maggior parte dei governi occidentali ha reagito a queste proteste pacifiche con una repressione feroce. Quello che mi ha colpito di più è stato vedere come una narrativa ipocrita e bugiarda venga perorata dai governi. Lo abbiamo visto poco tempo fa, quando si sono verificati gli scontri tra tifosi ad Amsterdam. Le immagini parlano chiarissimo: sono stati i tifosi israeliani a cominciare, tirando giù le bandiere palestinesi e incitando alla violenza con dei canti islamofobici. E invece la stampa ha raccontato la storia in maniera opposta, sostenendo che erano stati i sostenitori palestinesi a dare il via alle violenze con gesti chiaramente antisemiti. Purtroppo le correzioni nella stampa non avvengono, o vengono trasmesse in sordina, dopo che la notizia falsa abbia già preso piede. Ormai siamo in una realtà orwelliana, nella quale ciò che ci viene raccontato e ciò che vediamo con i nostri occhi non trovano corrispondenza.  

Io ho parlato molto con i miei figli di tutto questo, perché tengo in particolar modo al fatto che le nuove generazioni non si sentano minacciate, che possano esprimere le loro opinioni senza la costante paura che ciò che dicono possa venire distorto dalla stampa o, peggio ancora, pagare le conseguenze del loro diritto alla libertà d’espressione. Ma, ti dirò, credo che i governi ci abbiano fatto un favore a reagire in maniera così esagerata contro gli studenti, perché ora quel tipo di repressione è sotto gli occhi di tutti; ed era talmente ovvio che quei ragazzi non fossero affatto pericolosi che nessuno adesso potrà dire di non aver assistito ad una reazione esagerata e fuori luogo delle forze di polizia. Questo è l’ennesimo tassello che andrà a comporre la consapevolezza sempre più forte negli individui che qualcosa non va, che i governi ci stanno raccontando qualcosa che non è la realtà. La narrativa ufficiale non sta più in piedi.

 

A. Visto che il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo l’esempio che hai avuto dai tuoi genitori potrebbe

cambiarla in meglio.

 

S. Non mi piace la disonestà nelle parole che oggigiorno dilaga nei media e nella politica. Una disonestà che cerca di offuscare la realtà utilizzando parole suggestive: come quando gli articoli di giornale parlano di “persone morte a Gaza” senza specificare chi le abbia uccise e perché.

Basta guardare le press conference della Casa Bianca… Viene voglia di strozzarli! Non si parla mai della questione di fondo. Se penso a mio padre, lui aveva questa capacità di andare al nocciolo dei fatti storici senza lasciare che il lettore venisse distratto dei dettagli. Dov’è la questione morale? Dov’è la parte etica? Nel raccontare una storia è fondamentare specificare da che data si inizia. Cosa che è molto chiara quando si tratta della faccenda Palestinese: si parla sempre del 7 ottobre e quasi mai dei 76 anni precedenti, e questa è una forma di disonestà intellettuale ed etica da parte dei giornalisti. C’è un abuso delle parole e una totale mancanza di contesto. Nel grande giornalismo di un tempo il primo paragrafo di ogni articolo era sempre dedicato all’excursus storico dei fatti che si andavano a raccontare, non ci si precipitava subito nella cronaca; perché la cronaca non spiega nulla al lettore, è solo il resoconto di ciò che sta accadendo in quel preciso momento da qualche parte nel mondo. Oggi nessuno vuole prendersi la responsabilità di contestualizzare i fatti partendo dalla storia. Viene da chiedersi se la generazione che sta crescendo immersa in questo genere di discorsi sarà in grado di sviluppare il pensiero critico. Eppure io ho fiducia nei giovani, non mi sembrano completamente imbecherati dalla narrativa.

 

A. Tuo padre, per come lo conosci, cosa direbbe del comportamento della stampa?

 

S. Meno male che mio padre non c’è più, perché per lui sarebbe un tale sconforto vedere degenerare a tal punto la stampa… Ma immagino che la cosa lo avrebbe smosso come successe l’11 settembre, quando aveva ormai deciso di rimanere in pensione, ma non poté esimersi dallo scrivere dell’accaduto. Penso che oggi avrebbe fatto la stessa cosa. Per fortuna ci sono e ci saranno sempre delle voci solitarie che si stanno scagliando contro questa degenerazione del giornalismo, della politica e della morale.

 

 

 

La conversazione è stata così lunga e intensa che Saskia non ha risposto alla seconda parte dell’ultima domanda: “In che modo l’esempio che hai avuto dai tuoi genitori potrebbe cambiare in meglio ciò che non ti piace nel mondo di oggi?”.

Tuttavia, possiamo dedurre che tutto il lavoro giornalistico di Tiziano Terzani ci dimostra che il cambiamento passa dalla volontà degli individui di non temere l’essere una voce fuori dal coro. La disonestà del giornalismo può essere sconfitta proprio da quelle voci solitarie, alle quali ha accennato Saskia, che tentano di ristabilire la verità attraverso il racconto onesto e coraggioso della storia.



Nel 2012 il patrimonio librario della Fondazione Cini (che si trova a Venezia) si è arricchita della biblioteca personale di Tiziano Terzani, che comprende circa 6.000 titoli raccolti nell’arco di una vita ed è composta da volumi di storia, di storia della cultura dei paesi orientali, di arte e molti reportage di viaggiatori occidentali.

Per maggiori informazioni su Tiziano Terzani visita il sito web: https://tizianoterzani.com/

 

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