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Immagine del redattoreAlice Rondelli

Cintura e bretelle

Nel dicembre 2023 Meloni ha annunciato l’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative cinese. Intanto, Xi Jinping pensa allo sviluppo di sistemi alternativi per proteggersi dal rischio del dominio del dollaro, promuovendo la creazione della SCO Development Bank e avviando la Sino-Russian Financial Alliance. 
Ph. Città imperiale di Hue, Vietnam, 2018 (Alice Rondelli)

Martedì 12 dicembre 2023, il presidente del consiglio Giorgia Meloni ha annunciato l’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative (Bri), alla vigilia del vertice tra Cina e Unione europea.

Era il 2019 quando il primo governo Conte – con Luigi Di Maio vicepresidente del consiglio e ministro allo sviluppo economico – firmò il memorandum d’intesa con Pechino sulla Nuova via della seta. L’Italia diventò così l’unico paese del G7 e l’unica tra le principali economie europee a partecipare ufficialmente al gigantesco piano infrastrutturale di Xi Jinping.

Scrive Junko Terao su Internazionale: «Allora l’Italia sperava in una spinta per gli scambi commerciali con la Cina, fraintendendo il reale valore, totalmente politico, del memorandum d’intesa, e vendendolo agli italiani come una manna per l’export nazionale. Nel frattempo gli altri Paesi europei, Francia e Germania su tutti, facevano ottimi affari con la Cina senza bisogno di perdere la faccia (…). Oggi la stortura è stata sanata, Roma è tornata in carreggiata insieme agli alleati di sempre». Quindi, secondo Terao firmare un accordo di cooperazione senza precedenti con la nazione più potente del mondo significa “perdere la faccia” e l’unica soluzione possibile è riallinearsi ai padroni di sempre, gli Stati Uniti, e agli ignavi vicini di casa europei.

Una visione irriverente e avanguardistica, non c’è che dire!

 

Per via della seta si intende l’insieme di percorsi carovanieri (attraversati cioè da carovane commerciali) che, all’incirca dal II secolo a.C. al XIV d.C., collegavano l’Europa all’Estremo Oriente. L’itinerario cominciava nell’attuale Xi’an e procedeva per due strade principali: una a nord e una a sud del deserto della regione cinese dello Xinjiang, che conducevano in Asia centrale. I percorsi si riunificavano in una regione compresa tra Uzbekistan e Tagikistan e proseguivamo attraverso l’Iran e il Medio Oriente, dove una parte delle merci continuava via mare il viaggio verso l’Europa, mentre altre giungevano a Costantinopoli per via terrestre.

 

A metà ottobre 2023, la Cina ha celebrato il decimo anniversario della sua Belt and Road Initiative, che Xi Jinping (Presidente della Repubblica Popolare Cinese dal novembre 2012) ha definito come un «nuovo modello di cooperazione e vantaggioso per tutti», specificando che «La Cina è disposta a condividere la sua esperienza di sviluppo con il resto del mondo, senza interferire negli affari interni di altre nazioni, senza esportare il sistema sociale e il modello di sviluppo cinese e senza costringe gli altri ad accettarli». In cambio, le nazioni rappresentate a Pechino si sono sarebbero impegnate a promuovere la cooperazione pratica su strade, ferrovie, porti, trasporti marittimi e per vie d’acqua interne, aviazione, condutture energetiche, elettricità e telecomunicazioni.

Secondo il Council on foreign relations (think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali con sede a New York City) quello firmato dal presidente cinese Xi Jinping è il più grande programma infrastrutturale del mondo e rappresenta una sfida significativa per gli interessi economici, politici, climatici, di sicurezza e sanitari globali degli Stati Uniti.

Dal lancio della BRI nel 2013, le banche e le aziende cinesi hanno finanziato e costruito di tutto – dalle infrastrutture di telecomunicazioni alle città intelligenti – in tutto il mondo. Se implementata in modo sostenibile e responsabile, la BRI ha il potenziale per soddisfare le esigenze di lunga data dei Paesi in via di sviluppo e di stimolare la crescita economica globale». Tuttavia, Council on foreign relations aggiunge che «Ad oggi, i rischi derivanti dall’attuazione della BRI, sia per gli Stati Uniti che per i Paesi beneficiari, superano notevolmente i suoi benefici.»

Ad oggi l’iniziativa ha superato i corridoi originali delineati da Xi ed è diventata un’impresa globale che comprende 139 paesi (anche se non tutti i paesi che hanno formalmente aderito alla BRI ospitano progetti BRI), con l’aggiunta dell’America Latina come «estensione naturale del 21° secolo». Anche la portata della BRI è cresciuta, diventando un’impresa più amorfa, con la Cina che ha aggiunto la Digital Silk Road (DSR), la Health Silk Road (HSR) e la Green Belt and Road, che non hanno confini geografici.

La Belt and Road Initiative International Green Development Coalition (BRIGC o The Coalition) è stata lanciata durante il 2° Forum per la cooperazione internazionale della BRI, che si è svolto a Pechino dal 25 al 27 aprile 2019. La Coalizione è una rete internazionale aperta, inclusiva e volontaria che riunisce le competenze ambientali di tutti i partner e garantire che la Belt and Road porti uno sviluppo verde e sostenibile a lungo termine a tutti i Paesi interessati al sostegno dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. L’attuale assetto della Coalizione coinvolge 134 partner tra cui 26 ministeri dell’Ambiente degli Stati membri delle Nazioni Unite.

In proposito, l’Enviroment Programme delle Nazioni Unite spiega che «la coalizione fornirà una piattaforma per condividere concetti di sviluppo verde e sostenibile e opzioni di politica ambientale (…), e condividerà conoscenze, dati e analisi relativi alla tutela dell’ambiente, alla prevenzione e al controllo dell’inquinamento». La tavola rotonda biennale della Coalizione affronterà temi relativi a biodiversità e gestione degli ecosistemi, energia verde ed efficienza energetica, finanza e investimenti verdi, miglioramento della qualità ambientale e città verdi, condivisione delle informazioni ambientali e Big Data; e, soprattutto, si prefigge di creare una Global Climate Change Governance.

Insomma, gli intenti del governo cinese sembrano essere perfettamente in linea con quelli del World Economic Forum, ma allora qual è il problema? Perché gli Stati Uniti pensano che ci siano più vantaggi che svantaggi nei propositi della Belt and Road Initiative? E soprattutto bisogna domandarsi: svantaggi per chi? Semplice: il governo americano aspira ad essere a capo di quella governance globale per il cambiamento climatico e a realizzarne gli intenti con i soldi cinesi, ma la Cina, più ricca e più determinata, lo sta battendo sul tempo. Ufficialmente, le perplessità espresse dal Council on foreign relations americano riguardano quello che viene definito «straightforward altruistic endeavor», ovvero: gli sforzi della Cina non sarebbero affatto altruistici, ma bensì guidati da interessi economici e geopolitici. Un’aperta e spassionata critica al capitalismo, insomma! Viene da ridere solo a pensarci, figurarsi a vederlo scritto nero su bianco… ma tant’è.

Si continua sostenendo che «la Cina ha speso centinaia di miliardi di dollari in stimoli economici a seguito della crisi finanziaria globale del 2008, ma ha assistito a una diminuzione dei rendimenti sui suoi investimenti». Eppure, un documento della Yale school of management del giugno 2009, intitolato: China and the Global Financial Crisis: Implications for the United States spiega che la portata delle perdite degli investitori cinesi negli Stati Uniti non è chiara. Senza dimenticare che è stata proprio la Crisi dei subprime americana ad innescare la grande recessione mondiale e a spingere gli investitori cinesi a spostare altrove i propri interessi economici. Già nel 2007, prevedendo lo scoppio della bolla finanziaria americana, l’amministrazione cinese creò il China Investment Corporation, un fondo da 200 miliardi di dollari fondamentale per fronteggiare il problema. Dunque, è vero che potrebbero essere state le banche e le imprese statali cinesi le più esposte ai mutui statunitensi in difficoltà, ma durante il salvataggio dei capitali degli investitori privati, la Bank of China si disse in grado di assorbire gli investimenti privati dei suoi cittadini con le perdite correlate «senza eccessive tensioni». Ovviamente, la questione è complessa e articolata.

Sia come sia, nel 2013 le aziende private cinesi avevano fondi sufficienti da investire nelle numerose e costosissime iniziative della Belt and Road. Infatti, come spiega anche la ricerca di Yale «La Cina ha adottato una serie di misure per rispondere alla crisi finanziaria globale. Nel 2008, il premier cinese Wen Jiabao avrebbe affermato: «ciò che possiamo fare ora è mantenere  costante e rapida la crescita dell’economia nazionale, garantendo che non si verifichino grandi fluttuazioni. Questo sarà il nostro più grande contributo all’economia mondiale nel contesto attuale». Oltre a tagliare i tassi di interesse e ad aumentare i prestiti bancari, la Cina attuò una serie di politiche per stimolare e riequilibrare l’economia, aumentare i consumi, ristrutturare e sovvenzionare alcune industrie.

In effetti, nel novembre 2008 il governo cinese annunciò che avrebbe attuato un piano biennale da 586 miliardi di dollari (equivalenti al 13,3% del PIL cinese del 2008), in gran parte dedicato a progetti che riguardavano le infrastrutture e per sostenere le industrie ritenute dal governo vitali per la crescita economica della Cina e promuovere la loro competitività a lungo termine.

Quel “lungo termine” si riferiva, appunto, agli investimenti relativi alla Belt and Road Initiative. Non ci vuole un genio per capire che al governo americano non andava proprio giù che quello cinese fosse così bravo a tenere a galla l’economia del Paese in momenti di crisi globale e, addirittura, di essere in grado di ripartire da un’iniziativa massiccia che coinvolge le economie emergenti nel Sud-Est asiatico e persino quelle del Sud America. Questo spostamento degli investimenti cinesi dagli USA ad altri Paesi, impedì agli americani di tirarsi fuori da quel pantano che nel 2008 mise letteralmente in ginocchio l’economia e dal quale il Paese non si è mai ripreso.

Nel settembre 2008, il presidente Bush aveva telefonato al presidente Hu per chiedere l’aiuto della Cina per affrontare la crisi finanziaria in corso, facendo appello al fatto che essa aveva tutto l’interesse che l’economica americana si mantenesse in salute, ed esortandolo a detenere ancora più titoli statunitensi. Tuttavia, all’epoca gli investimenti cinesi nelle società finanziarie statunitensi avevano avuto scarsi risultati, per questo i funzionari cinesi erano riluttanti a investire ulteriore denaro in affari ritenuti troppo rischiosi.

 

Da quegli avvenimenti scaturirà una proposta che cambierà per sempre gli equilibri internazionali. Il 24 marzo 2009, infatti, il governatore della Banca popolare cinese, Zhou Xiaochuan, pubblicò un documento in cui chiedeva la sostituzione del dollaro statunitense come valuta internazionale. Questo, oggi, a distanza di quattordici anni, è diventato il caposaldo delle relazioni tra Russia e Cina, che stanno rivolgendo la propria crescente attenzione alla criptovalute (e non solo). Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, aggiornati al 2021, il dollaro occupa ancora il 59% delle riserve mondiali, ma in diminuzione rispetto al 71% del 1999.

Se secondo il Sole24ore «una diversificazione del sistema monetario internazionale, attualmente dominato dal dollaro, non è ancora una soluzione ottimale». Eppure, l’India sta studiando un meccanismo di scambio rupia-petrolio per importare il petrolio russo e bypassare le sanzioni USA e UE. Secondo il Treasury International Capital (TIC), la decisione degli Stati Uniti di congelare gli asset della Banca Centrale russa nel 2022 ha accelerato il recente trend di diversificazione delle riserve, e potrebbe segnare la fine del dollaro come riserva globale. La Cina è attualmente il secondo maggior detentore straniero di titoli del Tesoro USA, con asset per circa 1.000 miliardi di dollari.

Nel 2022 il tentativo della Russia di attutire il colpo delle sanzioni occidentali, il deterioramento delle relazioni della Cina con gli Stati Uniti e l’uso da parte dell’India di valute diverse dal dollaro nei suoi scambi commerciali con la Russia e l’Iran hanno condotto alla proposta per una valuta unica SCO (Shanghai Cooperation Organisation). Nel 2022 il presidente cinese Xi Jinping ha proposto di rafforzare lo sviluppo dei sistemi di pagamento transfrontalieri in valuta locale, promuovendo la creazione di una SCO Development Bank, alludendo al desiderio di sviluppare sistemi alternativi per proteggersi dal rischio del dominio del dollaro.

Pechino, per ora, non sta tentando di rendere lo yuan una valuta internazionalizzata. Non mira a detronizzare il dollaro americano e a sostituire il dominio del dollaro nel sistema globale con lo yuan; sta invece adottando misure per rendere lo yuan una valuta potente a livello regionale attraverso le istituzioni locali in Cina e le organizzazioni intergovernative regionali come la SCO. Pechino vuole aumentare l’uso dello yuan negli accordi commerciali e negli investimenti transfrontalieri della Cina, ridurre la sua dipendenza dal dollaro, ridurre al minimo il rischio di cambio e la carenza di liquidità in dollari e mantenere l’accesso ai mercati globali durante le crisi geopolitiche.

Come scrive Zongyuan Zoe Liu (editorialista di Foreign Policy): «Le iniziative di de-dollarizzazione della Cina non vengono attuate solo dal governo centrale di Pechino. Alcune delle iniziative sono state realizzate anche dai governi locali e dalle istituzioni finanziarie locali. Un esempio è l’Alleanza finanziaria sino-russa.

Nell’ottobre 2015, la cinese Harbin Bank (una banca commerciale cittadina) e la russa Sberbank  (la più grande cassa di risparmio in Russia per asset) hanno avviato la Sino-Russian Financial Alliance come organizzazione di cooperazione finanziaria transfrontaliera senza scopo di lucro. L’obiettivo principale dell’alleanza è quello di stabilire un meccanismo efficiente per sostenere il commercio sino-russo, facilitare una cooperazione finanziaria bilaterale globale e promuovere l’uso delle valute locali negli accordi bilaterali.

L’alleanza è una piattaforma importante per facilitare lo sviluppo del corridoio economico Cina-Mongolia-Russia. Nel 2022 le banche cinesi di importanza sistematica (come la Bank of China e la Industrial and Commercial Bank of China) hanno immediatamente cessato di elaborare transazioni con entità russe in seguito all’annuncio di sanzioni da parte del governo americano contro le banche russe. Tuttavia, le banche di piccole e medie dimensioni dell’Alleanza finanziaria sino-russa potrebbero aiutare le entità russe a eludere le sanzioni utilizzando infrastrutture di pagamento e regolamento alternative, come il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (CIPS) e i contanti.

Pechino si sta preparando a proteggersi da un ulteriore isolamento occidentale rafforzando l’impegno con i blocchi regionali guidati dalla Cina, contando sulla SCO per fornirle un “cuscino geoeconomico”. Negli ultimi due decenni, la SCO è cresciuta silenziosamente fino a diventare un blocco regionale non occidentale, che si sforza di ottenere un livello più elevato di autosufficienza collettiva e di rafforzare l’autodifesa contro le turbolenze finanziarie e geopolitiche globali.

Fondata nel 2002 come organizzazione di cooperazione regionale per la sicurezza, composta da sei membri: Cina, Russia, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, la SCO ha ampliato la sua agenda per includere dimensioni economiche, energetiche e tecnologiche. Le missioni dell’organizzazione includono: la cooperazione economica, il commercio, la finanza, l’energia, le infrastrutture e la sicurezza. Nel settembre 2003, gli allora sei membri della SCO – che ora si è estesa a nove (India e Pakistan si sono uniti nel 2017, e l’Iran nel 2022) – hanno pubblicato uno schema per la cooperazione economica e commerciale multilaterale, che ha posto le basi giuridiche per la cooperazione economica e ha indicato la cooperazione nel settore bancario e finanziario come un settore prioritario. Dal lancio della Belt and Road Initiative nel 2013, la Cina ha promosso il programma di investimenti infrastrutturali negli Stati membri della SCO. La Dichiarazione Ufa della SCO del 2015 ha annunciato ufficialmente il sostegno dei membri della SCO alla Belt and Road, segnando la combinazione delle due iniziative.

 

Questa lettura della faccenda consente di comprendere perché il governo Meloni abbia recentemente deciso, come spiegato all’inizio, di defilarsi dalla Belt and Road Initiative cinese.

​Da sempre vassalla degli Stati Uniti, l’Italia preferisce perdere un’occasione di partecipare non solo alla svolta green di cui tanto si parla negli ultimi anni, ma anche di precludersi una ghiotta occasione di crescita economica che moltissimi Stati hanno colto e grazie alla quale si arricchiranno. Peggio ancora, mentre la Cina si munisce non solo di una solida cintura, ma anche di un bel paio di bretelle per tenere in piedi e rafforzare l’economia del Paese, l’Italia rimane in braghe di tela, dalla parte sbagliata del mondo bipolare che si sta sempre più chiaramente delineando.


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